Terre sommerse ⥀ Opera collettiva solarpunk #13 (parte II)
Cosa accadrà quando i borghi natii e selvaggi, sulla costa delle Marche, saranno sommersi dalle acque? Il viaggio collettivo nella Borgopoli solarpunk prosegue. Il testo che vi presentiamo oggi è la seconda parte del racconto Terre sommerse di Giannandrea Eroli, autore anche della foto in copertina. È possibile leggere qui l’editoriale della rubrica e la lista dei contributi pubblicati finora
#13 (parte II)
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«Certo che lo sei, cara!»
Mara è colta alla sprovvista: la voce è quella di Veronica, indubbiamente, ma non riesce subito a mettere a fuoco l’anziana donna, seduta su una rozza panca di pietra, posta sulla facciata di una cappella rurale. Era uscita dall’assemblea della COMCOOP, la prima senza Franz, così distratta da non accorgersi che Veronica l’aveva seguita.
«Ci eravamo ripromesse di parlare di questa brutta situazione prima che… succedesse quello che successo», esordisce l’anziana.
Mara le sorride con affetto: «Si, me lo ricordo. Dopo la morte di tuo marito avrei ancora più bisogno di chiarirmi le idee, ma non potevo pretendere questo da te e da Roby, almeno non adesso».
Veronica si concede l’ombra di un sorriso: «E così sei andata a fare due chiacchiere con la grande quercia…»
Mara scrolla le spalle: «Lo faccio quando mi sento perduta. A volte funziona».
«E?»
«Questa volta no», Mara arriccia le labbra, «almeno non del tutto».
Veronica le accenna di avvicinarsi: «Aiutami a tirarmi su da questa gelida panchina. Se neppure la tua quercia ti ha aiutato, temo che una vecchia rimbambita possa fare assai poco. Ma vale sempre la pena provare; non sei d’accordo, tesoro mio?»
Mara aiuta l’anziana e l’abbraccia commossa: «Grazie. Ma non è ancora presto? Te la senti veramente?»
Veronica scuote il capo: «No, non è presto; credo, anzi, che mi faccia bene pensare ad altro. Manda un messaggio a Roby e digli che stanotte ti ho chiesto di farmi compagnia».
Mara si sente sollevata: Veronica ha incassato un colpo durissimo, le sue spalle appaiono incurvate e le occhiaie profonde denunciano notti senza sonno. Eppure, la vena di tristezza che la avvolge non riesce a offuscarne lo sguardo calmo e accogliente. Non ha dubbi che quell’invito così improvviso sia motivato davvero dal desiderio di affrontare quella discussione rimandata e si trova ad ammirare per l’ennesima volta la forza di quella vecchia donna minuta.
Mara, dopo aver telefonato a Roby, prende sottobraccio Veronica e, scambiando pochissime parole, si dirigono verso la piccola casa che l’anziana ha diviso con Franz per quasi quarant’anni.
Appena entrate, la padrona di casa si dirige nel tinello: «Non so tu, cara, ma non posso iniziare a parlare se non ho davanti a me una bella tisana fumante. Ne vuoi anche tu? Questa ai frutti di bosco è la mia preferita».
«Vada per frutti di bosco, allora».
Dopo cinque minuti, Veronica torna con due tazze, due filtri, il bollitore fumante e alcuni biscotti: «Serviti, pure Mara». Un breve spasmo di sofferenza attraversa il viso dell’anziana: «Scusami, vedi, i biscotti… li ho preparati mercoledì sera. Con le ultime uova raccolte da Franz. Mi spiace ma temo che per un po’ sarà così. Fammi pure le tue domande».
«Se vuoi rimandare…» prova a dire Mara, ma Veronica scuote la testa.
«Va bene», riprende la giovane: «Nei prossimi giorni dovremo decidere che risposta dare ai Conglomerati: accettare le loro richieste o respingerle? Dobbiamo scegliere, ne siamo tutti consapevoli, ma temiamo le conseguenze che la nostra decisione, qualsiasi essa sia, comporterà. Non possiamo procrastinare, siamo costretti a dare una risposta definitiva. Stiamo affrontando una crisi di cui fatichiamo a riconoscere le cause, io per prima. Senza comprendere rischiamo seriamente di sbagliare».
«Era quello che diceva sempre Franz», risponde Veronica sorseggiando la sua tisana.
«Già, aveva più volte manifestato la sua preoccupazione. Ma…» Mara si interrompe per un attimo, «ma oggi credo che lui avesse previsto l’approssimarsi di questa crisi e temesse che avessimo perso la capacità di affrontarla. Da qualche tempo, quando parlava delle COMCOOP, spesso diceva che stavamo perdendo lo spirito degli inizi: i nostri libri di Storia raccontano abbastanza dettagliatamente come abbiamo reagito alla Crisi Climatica, come ci siamo dovuti attrezzare per sopperire al crollo delle istituzioni centrali e come siamo riusciti, tra mille difficoltà, ad autogovernarci. Questa è la nostra storia e ogni membro delle COMCOOP con più di dieci anni ne è consapevole. Eppure, per Franz qualcosa si era perso: molti di noi più giovani, e anche io, lo ammetto, abbiamo inizialmente liquidato la cosa come una di quelle manifestazioni di nostalgia dei bei tempi andati, che a torto o ragione attribuiamo alle persone un po’ più in là con gli anni. La piega che ha preso questa crisi mi ha costretto a considerare le parole di Franz sotto un’altra luce, ma non ho chiaro a cosa effettivamente alludesse. Tu e lui eravate lì quando tutto è cominciato e questa è stata la vostra vita. Vuoi che mi fermi?»
Mara ha notato immediatamente che l’espressione pacata di Veronica si stava infrangendo: lo strazio per la perdita di Franz aveva incominciato a inumidirle le ciglia. La bocca, normalmente ironica e sorridente, è così contratta da sembrare raggrinzita: «No, Mara, non desidero che tu ti fermi. Sapere che Franz non c’è più me lo fa sentire presente come non mai e allo stesso tempo irraggiungibile: c’è un abisso che ci separa, eppure lo sento con me; so anche quello che mi direbbero. E il fatto di saperlo me ne fa avvertire ancora di più la mancanza. Vai avanti, ti prego».
Mara prese tra le sue mani la destra di Veronica: «Come vuoi. Lo scontro che Franz ha avuto con Roby: tu sai bene che quei due erano più simili di quanto a prima vista si direbbe. Condividevano molti assunti, ma partivano da prospettive diverse. Proprio perché si comprendevano così bene, finivano per scontrarsi. La cosa buffa è che, quando capitava che non si capissero, non litigavano. Semplicemente si ritiravano in se stessi e lontano dagli altri».
«Sì, Franz faceva così», Veronica assentì convinta, «si inventava subito qualcosa da fare e spariva per un paio d’ore. Quando penso che ora se ne è andato per sempre, mi chiedo se abbia deciso di morire a causa di una litigata più difficile da digerire. Ma hai ragione tu: non ce l’aveva con qualcuno in particolare, era solo molto preoccupato. Negli ultimi tempi era più evasivo, a volte tanto irritabile, quanto irritante. La cosa mi infastidiva molto e così, una decina di giorni fa, dopo l’ennesima rispostaccia, l’ho costretto a vuotare il sacco».
«Davvero?»
«Gli ho detto chiaramente che, se non avesse smesso di essere così indisponente, poteva andare dalle sue galline e restare lì con loro. Altrimenti, doveva farmi partecipe delle sue preoccupazioni».
«Scommetto che non è andato dalle galline», ridacchia Mara.
«No che non c’è andato», Veronica sorride mestamente, «invece abbiamo parlato fino alle due di notte: da ragazzi rubavamo ogni scampolo di tempo possibile al sonno perché il tempo insieme non bastava mai, da vecchi è solo il peso del tempo passato che non ti fa dormire. Comunque, Franz temeva realmente che le COMCOOP stessero cambiando e in peggio. “Stiamo iniziando anche noi a costruire muri; – diceva – quando avevamo poche risorse e tanto lavoro da fare, qualsiasi braccio ci aiutasse era bene accetto; ora che abbiamo qualcosa in più dei nostri vicini, ogni scusa è buona per non condividere.” Mi ricordo che gli feci una carezza… e poi gli diedi una tiratina alla barba», Veronica mimò il gesto: «“Vecchio caprone, non potevi parlarmene prima?”, gli dissi. Mi rispose che non riusciva, perché, sebbene ritenesse sbagliata la piega che stavano prendendo le COMCOOP, non poteva ignorare che c’erano stati dei morti proprio perché avevamo provato a condividere quello che avevamo. Nonostante quello che era successo, continuava a pensare che la scelta fosse giusta ed aveva paura che questa sua considerazione suscitasse la mia furia e il mio disprezzo. Si sentiva imprigionato tra due perdite, quella dei nostri e quella del progetto a cui aveva dedicato gran parte della vita. Ed era terrorizzato dall’idea di perdere anche me».
«E cosa hai fatto?»
Veronica si porta il dorso delle mani agli occhi, a scacciare l’incombenza delle lacrime: «E cosa dovevo fare? L’ho abbracciato e ho iniziato a piangere, anzi abbiamo pianto tutti e due. Mi ricordo di avergli detto che, anche se avevamo perso dei compagni, non potevamo fare altro che essere quello che siamo sempre stati e sforzarci di portare avanti quello che loro e noi abbiamo condiviso. Gli dissi che l’avrei aiutato e lo pregai di spiegarmi meglio le sue intenzioni. Franz voleva condividere quanto di buono abbiamo fatto qui, con la gente delle Terre Basse ma non con i Conglomerati, con cui sia lui che io volevamo avere a che fare il meno possibile. Il loro potere non è così assoluto come molti nelle COMCOOP pensano: abbiamo buone relazioni con gruppi e persone che vorrebbero più integrazione tra Terre Alte e Terre Basse».
«E questo cosa ha a che fare con le origini delle COMCOOP?» la incalza Mara.
«Molto. Cosa sai del ventesimo secolo?»
Mara scuote la testa: «Ricordi scolastici, non sono mai stata molto attratta dalla Storia. Comunque, due guerre mondiali, innumerevoli conflitti, rivoluzioni e disuguaglianze, fame, saccheggio delle risorse naturali e devastazione sistematica dell’ambiente, ma anche tanto progresso scientifico e tecnologico».
«Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale la parte del mondo dove viviamo noi arrivò a livelli di benessere economico mai sperimentati prima. La disponibilità di merci e beni era sovrabbondante e la maggior parte delle persone potevano accedere con relativa semplicità ai beni primari e spesso anche a quelli voluttuari. Non che i poveri fossero scomparsi: questa sovrabbondanza, era pagata dall’estrema miseria di un gran numero di persone, in parte nei paesi ricchi, ma soprattutto nei paesi meno fortunati. Nei Paesi Occidentali, nel giro di pochi anni quella grande disponibilità di merci aveva trasformato radicalmente il contesto sociale e le modalità con cui i beni venivano distribuiti e venduti. Centri commerciali e catene di negozi affiliati sostituirono la quasi totalità di negozi indipendenti, grazie a due fattori: il controllo della logistica e l’utilizzo delle leve finanziarie. La logistica, all’inizio, era il fattore che più incideva sul prezzo del bene: più era corta ed efficiente, meno il prodotto costava. Se poi la logistica era al servizio di pochi grandi mercati, invece che di tanti piccoli negozi, i costi erano ancora più contenuti. I generi di prima necessità, in particolare alimentari, vestiti e prodotti per l’igiene, furono i primi ad essere gestiti in questo modo, poi fu il turno anche dei voluttuari. Dato che alcuni negozi specializzati resistevano, fu la stessa GDO, la Grande Distribuzione Organizzata, come fu chiamava allora, ad imporre ai produttori più deboli, per esempio agli agricoltori, prezzi sempre inferiori. Cosa dava loro questo potere? Sicuramente una disponibilità finanziaria, che mancava ai negozi convenzionali, e il controllo della logistica. Cosa potevano fare, quindi, gli agricoltori per restare in piedi? O sfruttare il più possibile i loro terreni, magari acquisendone altri per aumentare la produttività, o dedicarsi a colture di nicchia più remunerative. Lo sfruttamento intensivo della terra, da parte di chi sceglieva la prima via, aveva ridotto drasticamente la fertilità dei terreni, che, per restare produttivi, dovevano essere saturati di fertilizzanti chimici. Chi aveva seguito la seconda via, di solito dimostrava una maggiore consapevolezza ambientale, ma la relativa esiguità delle produzioni e i prezzi più alti, escludevano la maggior parte della popolazione da queste produzioni. I beni tecnologici, come ad esempio elettrodomestici o veicoli, aggiungevano un’altra dinamica, che si sarebbe rivelata nefasta per l’ambiente».
Mara alza la mano e interrompe Veronica: «I combustibili fossili?»
«Non solo, c’era un altro problema enorme, ovvero che tali prodotti, a differenza di quelli primari, avevano la tendenza a raggiungere la cosiddetta saturazione di mercato: nel momento in cui quasi tutte le famiglie hanno già una lavatrice o un’automobile, diventa più difficile venderne tante, perché si possono sostituire solo quelle che non funzionano più. O non piacciono più, perché i nuovi modelli sono più belli, comodi ed efficienti. Bisognava alimentare pertanto la fame di novità ed accorciare la vita utile dei dispositivi alzando il prezzo di ricambi e riparazioni, in modo che spesso apparisse più vantaggioso acquistare una nuova macchina, invece di riparare la vecchia».
Mara sbuffa: «Che spreco. Le COMCOOP sostituiscono una macchina quando questa non è più in alcun modo funzionale. Piuttosto la modifichiamo e la miglioriamo, finché è possibile, soprattutto tenendo conto dei compiti che deve svolgere».
«Spreco, sì, perché quelle dinamiche portavano poi a consumare più risorse, fare più emissioni, produrre più rifiuti e utilizzare più energia».
«Quindi ad inquinare di più e ad accelerare i cambiamenti climatici: pazzesco!»
«Esatto. La necessità di contrastare la saturazione del mercato spingeva verso uno sviluppo dei prodotti sempre più veloce e a un ciclo di vita sempre più breve: la diffusione degli strumenti informatici di massa, a partire dagli anni 1980, accelerò ulteriormente questa dinamica… ma non voglio farti una lezione! Già ti ho costretta ad alzare la mano…»
«No, scherzi: per me è fondamentale capire cosa è successo. A scuola, quella parte del programma è stata fatta per ultima e troppo velocemente», lamenta Mara.
«Continuo, allora?»
«Certo».
«Le innovazioni che caratterizzavano i nuovi prodotti non erano necessariamente le più utili, ma quelle più veloci ed economiche da realizzare. Fu un effetto della continuità della ricerca e dello sviluppo dei nuovi prodotti, unita alla velocità richiesta dai mercati. Le risorse da investire in innovazioni a breve termine erano notevolissime e molte aziende si trovavano costrette ad aumentare la loro esposizione verso banche e fondi d’investimento. Il pubblico veniva indotto a cambiare sempre più rapidamente molti dei prodotti utilizzati quotidianamente con altri che promettevano meraviglie o semplicemente ti consentivano di stare al passo. E questo induceva la gente ad acquistare facendo in molti casi altro debito».
«Vuoi dire che le famiglie mettevano in pericolo la loro stessa sopravvivenza per acquistare prodotti che non sarebbero stati necessari, se avessero riparato i vecchi?»
«Non era colpa soltanto delle famiglie, abbagliate dalle novità: tra pezzi di ricambio, a volte introvabili, e manodopera, riparare un prodotto costava quasi quanto acquistarne uno nuovo».
«Con quali effetti?»
Veronica si interrompe per pensare, poi prosegue: «Agli inizi del Duemila, il volume degli scambi, in gran parte sostenuti dal debito stesso, superò abbondantemente quello di tutto il denaro circolante: le tecnologie informatiche avevano ulteriormente dato impulso alla virtualizzazione del valore degli scambi, per cui il sistema tendeva inevitabilmente a generare bolle speculative che a volte esplodevano causando shock e crisi finanziarie. Le borse valori facevano largo uso di contratti a termine standardizzati, i futures, che determinavano di fatto il prezzo di beni e materie prime a prescindere dalla loro reale disponibilità. Qualcosa non va?»
Mara assume un’aria perplessa e interrompe Veronica: «Non ti seguo, com’è possibile stabilire il prezzo di qualcosa senza conoscerne la disponibilità?»
«Cerco di spiegartelo, ma prima sgranchiamoci le gambe».
«Va bene».
«Andiamo a dare da mangiare alle galline».
Le due donne escono di casa. Le galline razzolano per terra, fuori dal pollaio, alla ricerca di un verme o qualcos’altro da mangiare. Quando Veronica entra, le vanno dietro e aspettano che versi i chicchi nella mangiatoia. Mentre si china, l’anziana riprende inaspettatamente il discorso da dove si era interrotta: «Allora, dicevamo, i contratti a termine standardizzati…»
«Aspetta», si affretta a dirle Mara, avvicinandosi per ascoltare le sue parole.
«I future, ti dicevo, ovvero i contratti a termine standardizzati, erano stati concepiti originariamente per evitare che i prezzi dei beni primari potessero variare eccessivamente: acquirente e venditore contrattualizzavano il passaggio di un dato bene da una parte all’altra ad un prezzo fisso, da perfezionare ad una determinata data, comunicando la cosa ad un ente terzo che doveva fare da garante», Veronica alza la voce mentre i semi di grano, mais, orzo, avena, girasole, lino, colza, piselli, fave, soia rimbombano nella mangiatoia. «Le parti, nel momento in cui si presentavano forti discostamenti di valore tra il prezzo concordato e quello stabilito dai mercati, potevano risolvere prima del termine il future con un contratto di segno opposto, ovvero di vendita per chi originariamente acquistava e di acquisto per chi vendeva. In realtà, questa opportunità, più che garantire la stabilità dei prezzi, diventò un ottimo mezzo per rendere le fluttuazioni di valore ancora più ampie». Finita la frase, Veronica, ancora incurvata per versare i cereali, accenna a Mara di avvicinarsi: «Aiutami, mi fa male la schiena». Raddrizzata, l’anziana prende sottobraccio la giovane e continua la sua spiegazione, mentre rientrano in casa: «Il fatto di poter chiudere il future prima della sua scadenza, ovvero dell’esecutività della transizione, consentiva di sottoscrivere contratti a termine standardizzati senza che vi fosse da nessuna delle parti in causa la reale intenzione di arrivare a perfezionare lo scambio. In altre parole, ciò poteva consentire di stabilire il prezzo alla base di uno scambio virtuale di un bene di cui il venditore non aveva la disponibilità e di cui l’acquirente non voleva conseguire la proprietà».
«Mi spiace», confessa Mara, «ancora non capisco l’utilità di vendere e comprare una cosa di cui non si ha il possesso».
«Se tu metti nello stesso insieme contratti che si risolvono effettivamente in una transizione fisica e contratti virtuali che vanno in compensazione senza uno scambio reale, finanziariamente il volume complessivo degli scambi è determinato da entrambe le tipologie».
«Forse ci sono», annuisce Mara, che nel frattempo si è seduta al posto di prima: «Sia i contratti che finalizzano una transizione fisica che quelli che si concludono prima, concorrono a determinare i prezzi, entro certi termini, a prescindere dalla reale disponibilità del bene in questione».
«Esatto, ma non solo del bene oggetto della transizione, ma anche di quelli che ad esso sono in qualche modo collegati».
Mara la guarda perplessa: «In che senso?»
Veronica si siede di fronte a lei e la guarda negli occhi: «Partiamo dalla radice storica delle COMCOOP e per certi versi anche dei Conglomerati, ovvero l’energia. Nei primi anni venti anni del Duemila, in Italia e in altri paesi europei, l’energia elettrica era prodotta in buona parte se non in gran parte dal gas naturale, di cui la maggioranza di questi paesi era pressoché sprovvista. Sicché era necessario importare la materia prima da altri paesi. Furono proprio le crisi legate al prezzo del gas, unitamente alle prime grandi alluvioni e frane, a diffondere con maggior urgenza la necessità di insistere sulle rinnovabili. Comunque, sino al 2020 il prezzo dell’energia elettrica era rimasto piuttosto stabile, anzi, tendenzialmente si era persino abbassato. Nel 2020 era arrivato a costare in media meno di quaranta euro per megawattora. Ad agosto del 2022 invece era arrivato addirittura a oltre cinquecento quaranta euro per megawattora».
Mara sembra essersi persa. Veronica prende le tazze vuote e torna nel tinello.
«Forse è meglio che iniziamo a pensare cosa mangiare per cena. Cosa ti andrebbe?»
«A me va bene tutto».
«Allora metto su l’acqua: cucinerò lenticchie e scalderò un sughetto al pomodoro. Che ne dici?» chiese Veronica, mentre cercava nella credenza un barattolo di lenticchie lessate. «Ottimo».
Dopo avere riempito la pentola di acqua e avere messo a scaldare il sugo, Veronica riprende a parlare, dal tinello: «Le fluttuazioni di valore che si verificarono tra il 2020 e il 2022 erano legate a due crisi ravvicinate, la prima dovuta alla prima pandemia del ventunesimo secolo, provocata dal virus COVID-19, e la seconda alla guerra tra Russia e Ucraina. La pandemia, esplosa nel 2020, aveva causato in gran parte del mondo il blocco di gran parte di quelle attività che comportavano la presenza di più persone in spazi comuni: scuole, cinema teatri, spazi pubblici, locali vennero temporaneamente chiusi, persino l’accesso ai servizi di prima necessità venne contingentato».
«Sì, questo lo abbiamo studiato a fondo: il professore fece anche un parallelo tra la peste di Atene del quinto secolo avanti Cristo, ricostruita da Tucidide, la peste del 1348, narrata da Boccaccio, e la peste del 1600, raccontata da Manzoni».
«Sono contenta. E cosa ti ricordi?»
«Se non sbaglio, la chiusura dei servizi pubblici e privati fu chiamata “lockdown”, da noi, ma avremmo potuto chiamarla, ci disse il professore, “confinamento”».
«Ricordi bene», dice Veronica sporgendo la testa dal tinello. «L’idea era di contenere la diffusione della pandemia e ridurre la pressione sulle strutture sanitarie. Ciò comportò una forte contrazione dei consumi, anche energetici, cosa che per l’appunto spinse il prezzo medio dell’energia a livelli più bassi, addirittura a duecentodiciassette euro per megawattora nel mese di maggio. A febbraio del 2022 avvenne l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, due paesi chiave per la distribuzione e la produzione di gas naturale: la Russia era, infatti, il principale fornitore dei paesi europei, mentre su territorio ucraino passavano molti gasdotti. La riduzione, e addirittura la cessazione delle forniture russe, comportò immediatamente un aumento del prezzo del gas naturale vertiginoso: in Italia ciò impattò notevolmente sul costo dell’energia elettrica, prodotta in gran parte proprio da gas naturale. Come ti ho detto prima, ad agosto si raggiunse il prezzo massimo per quella crisi: cinquecento quarantatré euro per megawattora. Tuttavia, diverse persone, compresi Franz ed io, non si lasciarono convincere dalla tesi che giustificava questi aumenti vertiginosi a causa della situazione internazionale. Non si poteva negare che il conflitto in questione avesse avuto un effetto sul prezzo dell’energia, ma c’erano due considerazioni che ci inducevano a sostenere che vi fossero anche altre ragioni. In primo luogo, i contratti con cui le società fissavano i prezzi del gas avevano durate pluriennali: le sanzioni applicate alla Russia dai paesi occidentali per l’invasione comportavano la chiusura dei contratti in essere con quel paese e la sottoscrizione di nuovi accordi con altri».
«Immagino più onerosi», interviene Mara, che nel frattempo si è alzata e si è avvicinata a Veronica.
«In realtà no, perché il costo della materia prima era vincolato a contratti spesso decennali, perciò l’incremento fu marginale. Il prezzo dell’energia elettrica, che, ti ricordo, era ancora prodotta in gran parte da gas naturale, aveva ricominciato a salire già da maggio 2021, passando da circa sessantanove ai duecento ottantuno euro a megawattora a dicembre dello stesso anno. La guerra era invece scoppiata a febbraio 2022, quando il prezzo era sceso a 211 euro per megawattora».
Mara entra nel tinello e, mentre lava tazze vuote, chiede: «Pensi che avessero previsto lo scoppio del conflitto?»
«Onestamente non eravamo sicuri che ne avessero previsto l’intensità, perché il conflitto era già scoppiato tra governo ed indipendentisti russi delle regioni orientali dell’Ucraina, di fatto, già nel 2014. La Russia aveva appoggiato da subito gli indipendentisti, aveva proceduto, dopo un referendum contestato dall’Ucraina stessa e da pressoché tutti i paesi occidentali, ad annettere la Crimea, sino ad allora controllata dagli ucraini, ma solo il 24 febbraio 2022 era entrata ufficialmente in guerra aperta. La giustificazione addotta era la tutela dei russofoni presenti soprattutto nel Donbass, che a detta del governo russo erano oggetto di violenze e persecuzioni».
«Sì, ho letto da qualche parte che questa giustificazione era contestata e non dal solo governo ucraino. Ma come stavano realmente le cose?»
«Difficile dirlo, specie quando un conflitto è alimentato da nazionalismi a servizio di visioni geopolitiche contrapposte. Una parte considerevole degli ucraini voleva legarsi al blocco dei paesi occidentali, mentre un’altra parte, quasi altrettanto consistente, voleva mantenere rapporti privilegiati con la Russia, rapporti risalenti addirittura all’impero zarista e proseguiti durante il regime sovietico. Ma torniamo a noi». Veronica fa una pausa per fare mente locale e riprendere il filo del discorso. «Oltre al quadro economico e a quello geopolitico, molti di noi erano sempre più preoccupati dal rapido deterioramento dell’ambiente. Il riscaldamento del pianeta, il carattere sempre più violento degli eventi climatici e l’insensibilità dei governi e di molte persone, ci lasciava sgomenti: ci sentivamo impotenti e sfiduciati. Tuttavia, furono proprio l’aumento degli eventi catastrofici e il numero delle vittime a spronarci. A parole quasi tutti i governi dei paesi più ricchi promettevano di contrastare il cambiamento climatico: lo avevano fatto sin dal 1997 con il Protocollo di Kyoto e poi con le conferenze delle parti, le COP, ma da allora lo stato di salute del pianeta era peggiorato. In realtà eravamo consapevoli che persino l’adozione di tecnologie o protocolli verdi previsti dai trattati internazionali, potevano facilmente essere il pretesto per lo sviluppo di nuove bolle di speculazione».
«Avevate ragione», annuisce Mara, «quando c’è un cambio di paradigma tecnologico, la fluidità sociale ed economica aumenta. In un contesto dove il collo di bottiglia era costituito dall’apparato finanziario internazionale, era lecito attendersi che le criticità più rilevanti sarebbero emerse lì».
«Esattamente», conferma Veronica, «adesso, però, facciamo una pausa e mangiamo. La cena è pronta».
Mara aiuta l’anziana ad apparecchiare. La guarda muoversi a fatica, ma nota che la conversazione è servita a distenderla: la bocca non è più raggrinzita. Non fanno in tempo a sedersi, però, che Veronica riprende il suo discorso, senza lasciarle scampo.
«Quando ci spiegarono come l’Unione Europea e il Governo Italiano volevano incentivare la produzione di energie rinnovabili, capimmo. Nel 2019 l’Unione Europea promulgò una direttiva, la RED II, che indicava a tutti i paesi membri le linee che dovevano seguire per diminuire e poi azzerare la dipendenza energetica da fonti fossili e conseguentemente contenere anche le emissioni di gas serra. Gli obiettivi erano in larga parte condivisibili: si parlava di autonomia energetica, autoproduzione e autoconsumo; ma non potevamo ignorare che le stesse istituzioni europee e nazionali aderivano incondizionatamente al modello economico finanziario che aveva innescato le crisi e consentito le speculazioni. A conferma di questa bipolarità istituzionale, i vertici intergovernativi come il G20 o la COP 28, a parole, dichiaravano l’improrogabilità di azioni più incisive per contrastare il cambiamento climatico, ma allo stesso tempo, nei fatti, poco facevano per limitare l’uso delle fonti fossili, arrivando in alcuni casi a ridimensionarne l’impatto». Mara, che non ha ancora mangiato neanche una lenticchia, si alza e va a prendere un faldone contenente vecchi documenti. «Dunque … ecco, vedi queste vecchie carte? Questo era lo statuto che avevamo preparato per la nostra prima Comunità Energetica. Ti dice nulla?»
«Certo», risponde Mara. «Se non ricordo male quelle comunità nascevano per autoprodurre ed auto-consumare l’energia collettivamente. Ma era un modello non privo di ambiguità: se non ricordo male all’interno di queste comunità c’erano dei soci produttori, si chiamavano prosumer, mi pare, che, dopo aver auto-consumato dai propri impianti l’energia di cui abbisognavano, concedevano ad altri soci consumatori, i consumer, di attingere al surplus di energia da loro prodotto. Questi consumer, però, erano tenuti a pagare integralmente anche l’energia che prendevano dai prosumer ai loro fornitori abituali. Per l’energia condivisa e utilizzata dai propri soci consumer la Comunità Energetica percepiva dallo Stato un contributo che poteva scegliere di ridistribuire ai propri membri. In questo modo il costo dell’energia veniva in parte mitigato».
Veronica continua scartabellare. Con un grugnito di soddisfazione estrae prima un foglio ingiallito e poco dopo un altro: «Ecco. Vedi questi documenti? Sono schemi sulle Comunità Energetiche che Franz ed io avevamo elaborato nel 2023. Abitavamo da poco assieme, ma, nonostante fossimo in due, quello che guadagnavamo era a mala pena sufficiente a garantirci un tetto. Come tanti, allora, avevamo bisogno di risparmiare per cui eravamo particolarmente sensibili a tutto ciò che ci prometteva di alleggerire i nostri costi fissi. Le Comunità Energetiche sembravano fare proprio al nostro caso, perché promettevano di alleggerire in parte i costi energetici e, nello stesso tempo, di ridurre l’impatto sull’ambiente, attraverso la produzione di energia rinnovabile. Partecipammo a vari incontri promossi da associazioni di cittadini interessati come noi: costituimmo dei gruppi e cominciammo ad approfondire le questioni energetiche. L’aspettativa era alta: le prime Comunità Energetiche italiane, a proposito, le chiamavamo per comodità CER, erano state costituite da neppure due anni e si basavano su un modello sperimentale piuttosto restrittivo».
Mara ha finito di mangiare le sue lenticchie e vorrebbe che anche Veronica le mangiasse: teme per la sua salute. Tuttavia, la vede così coinvolta nel discorso che non osa intervenire e la lascia parlare.
«Innanzitutto le CER italiane, a differenza di quelle di altri paesi europei, non potevano vendere energia: ciò significava che non potevano in alcun modo condizionare il costo dell’energia. Questo costo era stabilito giornalmente e all’ingrosso dal PUN, il Prezzo Unico Nazionale: sulla base della quotazione del PUN i vari fornitori di energia fissavano il prezzo agli utenti finali, compresi i soci consumer delle CER. In pratica, incassavano i proventi di un bene i cui costi di produzione erano sostenuti da altri. In secondo luogo, inizialmente le CER potevano costituirsi con soci prosumer e consumer riconducibili alla stessa cabina secondaria. Si trattava di cabine, di norma a servizio di un isolato o poco più, che trasformavano la media tensione in bassa tensione, andando così a consegnare l’elettricità alle utenze finali. Per potersi giovare dei contributi statali, unica fonte di introiti insieme al Ritiro Dedicato per le CER, esse non potevano installare impianti con potenza superiore ai 200 kilowatt picco. Il contributo erogabile era di neppure dodici centesimi al kilowattora e veniva in buona parte assorbito dai costi di gestione della CER: quello che restava poteva essere diviso tra i soci. A conti fatti, un socio Consumer poteva recuperare tra i tre e i quattro centesimi a kilowattora, un socio prosumer poco di più. Se il prezzo dell’energia, il Pun, era contenuto, il risparmio poteva essere interessante, ma quando invece tale costo si impennava come ad agosto 2022, il risparmio era irrisorio».
Mara si è distratta; Veronica se ne accorge, posa il foglio, si avvicina a lei, le posa una mano sulla testa e la accarezza. La giovane si desta dal suo stato onirico: «Scusami, pensavo a Roby. Che cosa starà facendo?»
«Non ti preoccupare per Roby, sa badare a se stesso. Se sei stanca, riprendiamo un altro giorno».
«No, concludiamo. Se non sbaglio, non era facile mantenere dei soci prosumer nella CER. Perché»
«Perché il contributo statale veniva riconosciuto solo sulla quota di energia autoconsumata in tempo reale all’interno della CER. L’energia non utilizzata veniva ritirata dal Gestore dei Servizi Energetici a cinque centesimi al kilowattora fissi e rivenduta in base alle quotazioni del Pun, a prezzi almeno di una volta e mezza o due superiori. La presenza dei soci consumer nella CER era pertanto essenziale per garantirle redditività, ma l’esiguità del contributo e la subordinazione ai valori di mercato rendevano complessa la permanenza dei soci prosumer. A fine 2021 il decreto legislativo 199/2021 modificò l’impianto delle CER e di altre configurazioni di autoproduzione e autoconsumo, migliorandone alcuni aspetti: innanzitutto, le CER venivano vincolate alle cabine primarie. Queste servivano aree assai più vaste rispetto a quelle coperte dalle cabine secondarie. Potevano raccogliere diversi piccoli comuni o zone più o meno ampie di città medie e grandi. Poi il limite di potenza per accedere ai contributi e agli incentivi statali passò a un megawatt picco. A febbraio 2023 cominciarono a circolare le bozze dei decreti che avrebbero dovuto attuare il decreto legislativo 199/2021».
Veronica prende uno dei fogli ingialliti che aveva messo sul tavolo e lo porge a Mara: «Vedi la data? 3 Marzo 2023. Il comitato di cittadinanza di cui facevamo parte fornì a Franz e a me la versione ufficiosa di quei decreti chiedendoci di studiarli. Per arrivare a scrivere questa paginetta impiegammo oltre una settimana per fare ricerche e altre due per avere risposte dal Gestore dei Servizi Elettrici. Aldilà di cabina primaria e aumento di potenza, le CER continuavano ad essere non particolarmente vantaggiose, specie per cittadini, imprese ed altre organizzazioni, mentre i Comuni, in particolare quelli sotto i cinquemila abitanti, potevano sperare in contributi sino al 40% dei costi di realizzazione di nuovi impianti. Tuttavia, le anticipazioni dei decreti attuativi, lasciavano sperare in un incremento sostanzioso dei contributi: nella nostra zona si poteva passare dai dodici centesimi scarsi a kilowattora ad oltre venti, che sarebbero stati erogati su tutta l’energia autoprodotta ed autoconsumata. Quindi non solo quella fruita dai consumer, ma anche quella utilizzata dai prosumer».
Mara non riesce più trattenersi e prende Veronica per la manica: «Mangia qualcosa, prima di continuare. Sono in ansia per te».
L’anziana le sorride: «Va bene, ora mi siedo a mangio le mie lenticchie. Così ti lascio in pace per qualche minuto».
Mara, mentre Veronica mangia, prende l’altro foglio. È datato 18 dicembre 2023.
Veronica ha mangiato in un battibaleno, evidentemente desiderosa di riprendere il racconto: «Dopo diversi mesi, nei quali i decreti attuativi erano passati al vaglio della Commissione Europea, il governo italiano sottopose i documenti finali alla Corte dei Conti prima della pubblicazione. Non solo l’entità dei contributi era stata riportata ai valori della prima configurazione della CER, se non inferiori, ma l’erogazione sarebbe stata calcolata solo sulla quota di energia condivisa autoconsumata. Inoltre, il 45% del contributo non poteva essere distribuito, ma destinato esclusivamente alle spese di gestione e al finanziamento di nuovi impianti. Di fatto la CER poteva così avere qualche convenienza per i Comuni, specie i più piccoli e per alcune tipologie di aziende, non certo per i cittadini. Fu una bella botta per noi e per le nostre speranze».
Mara, poiché quegli avvenimenti tanto lontani hanno momentaneamente alleggerito le pene di Veronica, la incita a continuare: «Non vi siete persi d’animo, però…»
«No, le CER, per quanto azzoppate, ci avevano fatto riscoprire la possibilità di agire attivamente e collettivamente, permettendoci di andare oltre i nostri piccoli steccati: ci accorgemmo che le nostre necessità e le nostre aspirazioni non erano condivise solo da gruppi più o meno ampi e consapevoli di cittadini, ma anche da moltissime imprese ed organizzazioni. Non si trattava solo di risparmiare o contribuire a preservare l’ambiente; quelle CER mutile suggerivano a tutti che la collaborazione e la condivisione potevano funzionare meglio della competizione. E poi, ancora prima che ci arrivasse la doccia gelata dei decreti attuativi, avevamo già pensato di affiancare alle CER delle Cooperative Energetiche».
«Noi oggi siamo Comunità Cooperative», nota Mara. «Sappiamo che la maggior parte delle persone che vivono sotto i Conglomerati se la passa peggio di noi e che una piccola minoranza di privilegiati vive come se il mare non si fosse mai alzato. Non saremo mai materialmente prosperi come quei pochi, ma siamo liberi di scegliere se e come migliorarci: la collaborazione e la condivisione funzionano meglio…»
«Questo è vero se sono eque e rispettose delle libertà personali».
«Avete impostato le COMCOOP in modo che nessuno ti impone qualcosa che non vuoi fare; eppure quasi tutti ci sentiamo più appagati quando facciamo la nostra parte. Oggi lavoro in un laboratorio cooperativo, ma se domani ritenessi di poter fare meglio il mio lavoro attraverso un’attività inividuale, nessuno me lo impedirebbe».
«No, certo», conferma Veronica, «inoltre, fin dove possibile, verresti anche aiutata, senza per questo indebitarti per tutta la vita».
«La differenza che c’è tra noi e i Conglomerati è che noi possiamo sempre scegliere».
«Hai detto una cosa importante Mara: noi possiamo scegliere. Senza questa possibilità siamo inermi. Prima delle CER e delle Cooperative Energetiche cercavamo di tenerci a galla in un mare di non scelte».
«E come facevate?»
«Eravamo bombardati di proposte che ci costringevano nella stessa matrice. Con le Cooperative Energetiche abbiamo provato a sottrarci alle scelte obbligate che il mercato dell’energia ci imponeva».
«In che modo?»
«Finanziavamo e realizzavamo impianti collettivi che soddisfacevano le nostre esigenze energetiche a prezzo di costo: in qualità di soci sovventori non eravamo tenuti a seguire le dinamiche del PUN. Noi versavamo alla Cooperativa Energetica quattordici centesimi al kilowattora quando gli altri ne pagavano trenta o quaranta. La nostra scelta è stata quella di voltare le spalle a quel sistema, perché altrimenti avremmo rinunciato alla nostra libertà. La cosa funzionò così bene che sempre più persone, aziende ed organizzazioni volevano le cooperative energetiche: accogliemmo tutti e accettammo quello che ognuno poteva dare. Girammo per tutta la regione a raccontare quello che stavamo facendo e qui, in quelle che oggi chiamiamo Terre Alte e che ora sono la nostra casa, la nostra esperienza si trasformò da esile piantina in una quercia grande e robusta come la tua. Qui c’erano le condizioni migliori perché gli svantaggi naturali rendevano più opportuna la collaborazione…»
Veronica s’interrompe, afferrata da ricordi che a Mara apparvero, dall’espressione della donna, dolorosi. Intuendo a cosa pensasse, dice: «Nel 2031 tu e Franz, come tanti altri, avete perduto la vostra casa a causa dell’innalzamento del livello del mare, vero?»
«Sì, e le Terre Alte ci accolsero e aiutarono. Non solo noi, a causa dei tanti progetti che avevamo contribuito a realizzare in queste zone, ma anche tante persone e famiglie che fino a quel momento avevano fatto poco o che non vantavano conoscenze e legami con la gente di qui».
«Fu una scelta felice, allora», azzarda Mara, «perché senza quelle persone, senza il loro ingegno, il loro lavoro, la loro dedizione, sarebbe stato assai più complicato sopravvivere. Forse comincio a capire cosa ci voleva dire Franz…»
«E cioè, cara?»
«All’epoca voi potevate accontentarvi di non scegliere, facendo finta che tutto sarebbe andato comunque bene. Avete scelto, anzi siete stati costretti a scegliere, parole tue, non mie. La vostra scelta è stata quella di costruire le vostre esistenze sulla condivisione. Avete iniziato con l’energia, avete continuato con la ricerca scientifica e con le invenzioni materiali. Avete dato, perché ciascuno di voi era consapevole di avere bisogno dell’altro; pertanto, avete anche ricevuto. Noi non dobbiamo decidere se soddisfare o meno le richieste dei Conglomerati: fosse questo la risposta sarebbe un semplice no. Noi dobbiamo, invece, decidere se aiutare o meno la gente che vive sotto i Conglomerati; non solo materialmente, con i beni che produciamo e con le nostre tecnologie, ma restituendo loro la consapevolezza della scelta. Per Franz potevamo prendere solo questa strada, se avessimo voluto continuare a essere quello che siamo sempre stati. Ridurre la questione all’arrogante richiesta dei Conglomerati per lui significava ignorare volutamente il nocciolo della questione e quindi non scegliere».
Veronica sospira: «Neanche le COMCOOP sono immutabili, né eterne. Eppure, credo anche io che di noi ci sia ancora bisogno, o, meglio, ci sia bisogno di quelle COMCOOP che hanno accolto e aiutato tutti noi disperati che abbiamo avuto le case sommerse. Franz non poteva accettare l’idea che le cose stessero andando in un altro senso. Siamo diventati una struttura, per certi versi un governo, e cominciamo ad assomigliare troppo a chi abbiamo avversato. Per ora siamo ancora più efficienti; sicuramente siamo più rigidi. Franz mi ripeteva che se le regole che ci diamo finiscono col nascondere la nostra umanità, non sono più buone regole. Perciò, Mara cara, non voglio dirti quale ritengo possa essere la decisione migliore; probabilmente lo immagini da sola. Non mi resta ancora molto tempo da vivere e non sarebbe giusto che dei vecchi come me scegliessero per voi: è una responsabilità che non vi voglio togliere e una libertà che non vi voglio rifiutare».
Mara scosta la sedia e si alza, guardando con profondo affetto quella donna di un altro tempo: «Nonna, grazie a te ora mi è tutto più chiaro. Domani ne parlerò con Roby e gli altri e decideremo cosa dire e cosa fare nella prossima assemblea. Ti vedo stanca, andiamo a dormire».
Fine.
(Racconto di Giannandrea Eroli)