Tintinnii ⥀ Racconto di Abu Leila
Dedichiamo la pubblicazione di oggi al racconto Tintinnii di Abu Leila, accompagnato da un’illustrazione di Marta Goldin
Tintinnii è un racconto che ci porta davanti agli occhi la creazione e la presa di consapevolezza del sé attraverso lo specchio dell’altro e la convivenza. Il senso di comunità e collettività permeano l’intera narrazione, in un tiraggio multidirezionale che sembra voler fare a pezzi l’io nel tentativo di farne esperienza generatrice. Attraverso l’amore l’io trascende la sua forma ma non può, di fatto, rinnegarla. Abu Leila commista brividi e falafel dipingendo una intensa cornice, dentro e fuori la quale prendere decisioni diviene un fondamentale atto di resistenza e appartenenza, nel tentativo di decifrare cosa sia vivere.
(Marzia D’Amico)
Tintinnii
1.
Secondo me era stupido fare e rifare i ricami del cuscino per mesi. Quando dormiva su questo cuscino sembrava un’icona bizantina. Innanzitutto perché ci aveva ricamato linee dorate che la circondavano come una corona, e poi perché era piuttosto bruttina, con quella faccia un po’ troppo severa. Non per dire che le icone bizantine sono tutte brutte, anzi. Intanto non so perché mi preoccupavo di questa situazione estetica quando le tazzine del caffè mi bruciavano le dita tantissimo. Urlai per svegliarla. Mi stava ignorando, certo, ovvio che mi stava ignorando. Non le piaceva svegliarsi. Misi il caffè sul comodino. La abbracciai.
Mi piaceva abbracciarla e sentire la sua schiena piano piano fino ad arrivare giusto quasi al suo sedere, ma non proprio. Mi ricordava i video di massaggi pornografici che guardavo quando stavo da sola. Lei si avvicinò di più appena le misi un po’ di pressione sulla schiena, per schiacciare il suo seno al mio, come faceva sempre. Però poi si svegliò. Mise Fairuz e Marcel Khalife su Spotify come se fosse la cosa più naturale del mondo e il suo arabo non avrebbe fatto ridere neanche me. Era inutile dirle che era un po’ patetica, questa cosa di riconnettersi con la sua cultura, tanto non era la sua cultura ormai, quindi lasciai perdere e continuai ad accarezzarle la schiena. Gliel’avevo detto varie volte, però poi lei iniziava con come a me non piacevano i classici anni ’70 perché avevo questo razzismo internalizzato, questo imperialismo culturale dentro, una mancanza di dignità che sì, per carità, era pure giustificata dalla devalorizzazione sistematizzata del corpo e della cultura non occidentale, ma comunque una vergogna, senza dubbio una vergogna. No, non oggi, continuai ad accarezzarle la schiena, e lei mi disse dai facciamoci un panino alla nutella. A entrambe piace la nutella.
2.
Avrei dovuto immaginare che era una che ricamava il cuscino per mesi dall’inizio. Si era presentata a questa festa in un centro sociale acconciata ridicola. Sì, io ero innamorata, però oggettivamente era vero. Aveva tutte queste collane che avevo visto solo in foto di tombe etrusche di donne ricche. In realtà erano collane egizie. Comunque quando l’ho incontrata stavo parlando con Gaia, cioè Gaia stava parlando con me, diceva: «Non puoi capire, amo, non puoi capire, ma oggi questa signora rompe un uovo mentre lo passa sulla cassa, e io naturalmente dico, signora, questo lo deve pagare uguale. E lei sbam sbam! Sbatte tutte le uova sulla cassa e se ne va, dice, io non pago un cazzo di niente, cazzo, vaffanculo a voi e i vostri imbrogli, ormai neanche al supermercato si sta sicuri. E allora io la rincorro fuori dal supermercato, anche se la guardia mi dice ferma, ci penso io, e io no, voglio pensarci proprio io. La fermo e le dico, signora, tutto apposto, possiamo fare niente per aiutarla? E vedo che vicino alla macchina l’aspetta un bambino che tranquillo tranquillo mangia i Ringo, e naturalmente non voglio imbarazzarla davanti al figlio per la cosa delle uova, ma lei non si trattiene, e,»
Ma io non la seguivo bene perché ero stressata che puzzavo di falafel, non avevo avuto il tempo di lavarmi dopo il lavoro, e poi questa donna (lei) mi tintinnava intorno con le sue ventimila collane. A un certo punto si girò verso di me e disse: «Che buon odore che hai! Sai fare i falafel?»
E io: «Sì sì, eheh, ci lavoro pure nei falafel».
Intanto Gaia continuava: «Non ce la fa che era il pride, ora il bambino piange che vuole mangiare l’ovetto Kinder subito, ma no lei continua che non ce la fa a fare la spesa così con tutti questi froci in giro, ovvio che le tremano le mani e rompe le uova, alle povere donne come me chi ci pensa? Che io ho famiglia non posso permettermi di buttare soldi così! Chi ci pensa a me?»
3.
Il giorno dopo venne al negozio, agghindata di nuovo in modo ridicolo. Era coperta di oggetti che potevano stare nei musei, come gioielli trovati in antiche tombe. Non certo qualcosa che dovrebbe indossare una persona reale, in Italia, nel duemila e diciassette, non quando io ero lì con i miei jeans puzzolenti e la mia maglietta sudata. Lei, per principio, non indossava mai i jeans. D’altronde non sarebbero andati bene con quei suoi gioielli, che mi diceva: «Li ha presi mia madre in Egitto, e in Siria, quando aveva la mia età. Sono d’argento. Alcuni li ho presi io, a Cipro, in Grecia, però non sono d’argento».
Ordinò un falafel con un ampio sorriso, e avevo appena finito di prepararlo quando Hussein apparve, ancor più sorridente di lei. «Volete una tazza di tè?» disse. Un artista palestinese improvvisatosi kebabbaro, Hussein era sempre dell’umore giusto per una tazza di tè. Lei disse: «Volentierissimo», e ci sedemmo tutti e tre sui gradini, fuori dal locale. Lei sorrideva come una bambina, come se quella tazza di tè fosse un lusso da un mondo segreto. Reagì nello stesso modo al falafel. In effetti, pensai, il tè era fresco dai campi siriani, portatoci dalla signora che preparava i fatayer, e i falafel erano fatti a mano dalla sottoscritta, mica roba congelata. Seppur irritata dalla sua assurda gioia alla nostra pausa tè, ero orgogliosa, perché mi sembrava di essere io stessa la guida al mondo segreto. Chiacchieravamo così, del prezzo dei falafel, di musica, di Gerusalemme. Hussein aveva un’idea che ripeteva sempre, e cioè che quando faceva arte in Palestina non aveva senso parlare di pace, tanto era lontana l’idea, ma si doveva parlare di lotta, di libertà, di frustrazioni. Invece in Europa, diceva, questo non sembrava altro che incitamento alla violenza. Quando non hai la violenza alle porte ogni giorno, non c’è lotta che abbia significato. E infatti ora dipingeva colombine da vendere come arredamento casa. Amar ascoltava affascinata, io pensavo al mio tè, e le chiesi com’era andata la sua giornata.
4.
Non fu difficile innamorarsi di lei. Non era bella, spolverata di acne (cistica), con quel suo nasone all’ingiù, quel viso cadente, troppo serio. Ma divenne facile correre dietro al suo tintinnio, pensarla come una statua che, se solo avessi potuto spogliarla, sarebbe diventata una persona vera. Così un giorno, durante un’altra pausa tè, disfeci la sua collana (voleva farmela provare) e sfiorandole il collo provai un brivido. Non esitai a baciarlo. Per qualche miracolo che sfidava ogni barriera culturale, ero disinibita. Non avevo mai provato imbarazzo a toccare altri corpi. Mi fermai, attendendo una sua reazione. Rimase ferma. Incerta sul significato del suo silenzio, chiesi: «Posso baciarti un’altra volta?» Lei annuì. La baciai di nuovo sul collo, pallido e ricoperto di morbida peluria scura, ai limiti tra capelli e pelo. La baciai nello stesso identico modo di prima. Aspettai un qualsiasi segnale da parte sua, di assenso o dissenso. Quell’attesa silenziosa mi eccitava, e nel petto sentivo una stretta pulsante. Lei disse: «Che ne dici se oggi ceniamo insieme?»
«Sì. Torna qui alle 11 – stacco a quell’ora – e poi vediamo che fare».
A farmi innamorare era forse stata proprio la serietà del suo viso, il suo modo di rendere solenne la pausa tè e l’odore dei falafel. Tutto quel che a me sembrava solo, nel migliore dei casi, un po’ comico. Volevo vivere anch’io in quest’aura sacra, essere vista da quegli stessi occhi con ancora più rispetto di una tazzina di tè siriano. Nella nostra prima cena insieme rise continuamente (mi è stato detto di essere un po’ sciocchina), e le risate che le scuotevano tutto il corpo non scossero la serietà di quel viso.
5.
La prima volta che facemmo sesso non si tolse gli orecchini, né la cavigliera. Il tintinnio mi entrò nelle orecchie ad ogni spasmo. Ero irritata.
Con il tempo quei gioielli iniziai a maneggiarli con amore, a spostarli sempre dal bagno per far sì che non si arrugginissero. Ne parlammo una volta, in una passeggiata digestiva dopo cena. Le chiesi perché portava sempre quell’argento sul collo, sulle dita, sui polsi e sulle caviglie.
Disse: «Vedi questa sera, oggi, questa passeggiata? Vorrei poter ricordare tutto: il particolare suono dei grilli di questa sera con l’eco di un abbaio, le nuvole bianchicce sul cielo nero, il gatto spaventato, l’uomo che si allontana, l’ombra dei colli. Vorrei avere per sempre ogni dettaglio di ogni serata insignificante, che però per me significa, perché ci sono esistita! L’uomo senza maglia con la porta aperta davanti al ventilatore. Il cane che mi ha spaventata. Tutto. Ma di ogni cosa ricordo dettagli stilizzati, e mi manca tutta la mia vita.
Se questo è vero per questa passeggiata, pensa a tutto il resto, all’infinità di storia che c’è dietro di me, senza di cui non potrei esistere. Non voglio dimenticare dov’è nata mia nonna, né dov’è andata mia madre. Maneggiare qualcosa di suo mi fa vedere la sua notte egiziana, con tutto il suo amore e tutte le sue irritazioni, e ciò mi ricorda il suo ritorno a casa, all’orticello di sua madre, ricostruito amorevolmente dopo le bombe. Mi ricorda le bombe e come, durante la guerra, non poteva avere gioielli, niente di inutile. E penso che anche lei abbia scelto questi gioielli, fatti di monete antiche, per non dimenticare le storie sui fenici e i sumeri e sulle invasioni turche, per poter camminare da sola, senza casa, sentendosi qualcosa dietro. Io voglio sentire lei e tutto quello che c’è dietro di lei. Non voglio perdere niente. Questo è l’amore».
Mentre li spostavo dal bagno li provavo sulle mie braccia, e per un momento sentivo anch’io di avere una storia lunga, seria. Provavo un certo rispetto per me stessa, con tutta questa storia addosso. Ma allora mi irritavano soltanto, e un po’ lo fanno anche ora. Dopo tutto, volevo potermi sentire seria e rispettabile anche senza nessuna storia. Alcune cose non erano fatte per essere ricordate, c’era un motivo se la mia, di madre, della guerra non parlava mai, non una parola sul suo passato. Come una bambina annoiata alla lezione di storia, a volte le spostavo dal bagno pensando, imbronciata: «Tanto sono tutti morti».
6.
Voleva, a tutti i costi, andare a visitare le nostre rispettive famiglie. A me non importava molto della famiglia. Volevo bene a tutti, sì, certo, ma avevo sempre vissuto a una certa distanza da loro. C’erano motivi più o meno profondi, ma alla fine mi piaceva la mia indipendenza. Non mi piace essere “una di”, voglio essere una e basta. Invece lei vuole sempre essere “una di”. Una della famiglia, una della città, una degli immigrati, una della nazione, basta essere una di qualcosa. Va bene avere le nostre differenze, il problema era che lei voleva che noi due insieme fossimo “due di”, e io non ero proprio a mio agio nemmeno a essere due. Mi trovavo bene ad essere una.
Comunque quel giorno si svegliò, ci facemmo questo panino alla nutella. Lei si sporcò le mani, io le offrii di leccargliele. «Che schifo, che schifo», disse, e se le mise in bocca, poi ci baciammo. Stavamo proprio bene, in fondo. Io stavo proprio bene anche se dentro non ero sicura di amarla.
Ero sicura di essere innamorata di lei, ma lei dice che se la amassi non solo avremmo visitato le nostre rispettive famiglie, ma ci saremmo anche sposate. Su questo litigavamo spesso. Per lei, innamorarsi voleva dire fare una passeggiata, vedere le cose intorno, e basta. Amare, invece, voleva dire continuare questa passeggiata per sempre, cristallizzarla, come i suoi gioielli, creare una storia, esserne parte, lasciare un’eredità al futuro. Per me la differenza non era così chiara. Ero decisamente innamorata di lei, per motivi a me sconosciuti, data anche la sua personalità un po’ fastidiosa. Certo, volevo spendere il mio tempo libero con lei, mi piaceva baciarla, ma poi c’erano questi problemi con la famiglia e il matrimonio. Lei insisteva. Era difficile spiegarle che sia in Italia che nei nostri paesi il nostro matrimonio sarebbe stato illegale. Per una donna che parlava così spesso con termini politici altisonanti – «colonialismo mentale» era una delle sue frasi preferite – sembrava ignorare totalmente la realtà politica intorno a lei. Non che io ci pensassi moltissimo, ma bisogna stare con qualcuno che davvero non ci pensa per capire quanto ci si pensa. Lei aveva un intero piano. Voleva formare una banda che ci avrebbe portate in giro per la città con musica e danza. Voleva almeno cinquecento invitati lì, le nostre famiglie, il quartiere. E io giù a dirle guarda, i miei genitori saranno pure rilassati, e forse stiamo pure simpatiche a quelli del negozio, ma i nostri zii e cugini sarebbero volati in Italia per un matrimonio illegale lesbico? Lei non voleva sentire obiezioni. Mi diceva, tu non capisci l’amore, non capisci cosa vuol dire costruire qualcosa insieme, preservare questo momento, questa cultura che stiamo creando, fare figli, figli che sanno creare momenti, che sanno quanto è sacra la loro vita, che conoscono la propria storia, che sanno come creare un futuro, figli che non dimenticano. Tutte queste cose, insomma. Era vero. Io principalmente volevo scopare, guardare Netflix con lei, cose così. C’è anche da capire che io ho giusto ventitré anni. Ne stavamo discutendo ora con questi panini alla nutella.
Ne stavamo discutendo quando squillò il campanello. «Scendi», disse lei, «vai a vedere chi è». Non serviva scendere, avevamo un citofono, ma lei insisteva. Allora scesi. Non avevo voglia di litigare ancora.
Alla porta c’era un’intera banda.
Io mi arrabbiai. Salii di nuovo su.
«Cosa hai combinato?» chiesi. «Io non ho mai accettato di sposarti».
«Non preoccuparti del matrimonio, scendiamo, sarà bello».
Io ero in jeans e maglietta, lei sempre agghindata com’era. In fondo mi piaceva la musica della banda. Scendemmo. Ci presero sulle loro spalle. Hussein e i suoi amici, gente del falafel. Suonavano tamburelli, chitarre, cantavano. Mi veniva da piangere dal ridere. Non ero mai stata portata in giro da una banda prima. Lei mi tese la mano, io la presi, ci guardammo, anche lei stava piangendo.
Arrivammo in piazza. La banda ci fece scendere giù, tra l’emozione della folla. La folla erano i lavoratori del ristorante, gli amici del centro sociale, un paio di amiche d’infanzia di entrambe. Ovviamente le nostre famiglie non c’erano. La folla era contentissima, urlava, batteva le mani. Lei mi baciò. Le sue labbra erano scorticate e meravigliose. La amavo.
«So che a te la storia pesa», mi disse.
Era vero. La storia mi pesava. La storia con cui ero cresciuta era di guerra, morte e perdita. Volevo liberarmene. Annuii.
«Ma ascoltami, questa non è storia. Guardaci, guarda la nostra gente. Questo è quello che stiamo creando, una cultura nuova, qualcosa di bellissimo. Ti piace?»
Certo che mi piaceva. Mi piaceva tutto. La musica. L’aria calda. I nostri amici. La piazza. L’odore della pizzeria all’angolo. La capii. Volevo tenermi tutto, portarlo in un futuro, renderlo parte di qualcosa. “Uno di”.
«Voglio costruire un futuro con te, Fatima. Facciamo quello che ci pare della storia. Sposami».
Mi venne da piangere di nuovo. Di nuovo la baciai.
In quel momento passò una coppia di anziani. Si fermarono a fissarci. Incontrammo il loro sguardo con il nostro.
«Ormai succede di tutto in questa città», disse la signora.
«Dovrebbero ammazzarli tutti», disse il signore. «Non ne abbiamo mai ammazzati abbastanza».
Entrambe ridemmo, tra la nostra gente, con la nostra nuova storia alle mani.
Mi guardai intorno. Vidi il volto di Ahmed che era sopravvissuto. Vidi il corpo di suo figlio che invece non ce l’aveva fatta. Vidi le braccia amiche. Le vidi uscire dalla terra, grigie di morte. Vidi il nostro futuro, una distesa di tempo dorata dopo la sopravvivenza. Mi sembrò assurdo. Vidi mia madre che ancora non riusciva a dormire la notte, quanti anni dopo? Vidi che non c’era un dopo. Vidi che sarebbe successo di nuovo. Vidi quanto la amavo.
«Scusami», le dissi, senza guardarla. «Dovremmo lasciarci».
Abu Leila nasce a Beirut, cresce in Abruzzo e vive a Londra, dove fa parte del collettivo Barbican Young Poets. Ha vinto il London Writers Awards nel 2019 e il Bridport Prize nel 2022.
Ha scritto per VICE Italia, inutile e The Vision. Sta scrivendo il suo primo romanzo, rappresentato da A. M. Heath.
