Toti O’Brien traduce Richard Garcia (I) ⥀ Le vele – Poesia della traduzione 10
Le vele propone, in due tempi, le traduzioni di Toti O’Brien di poesie e prose poetiche di Richard Garcia: puro istinto e pluralità di elementi culturali animano questo dialogo tra due preziose voci della poesia internazionale
Le vele – Poesia della traduzione è una rubrica che propone versioni inedite in italiano di voci che provengono da altre lingue, luoghi e culture, per accoglierle e farle nostre attraverso il faticoso lavoro di scavo, di ricerca, di trasporto da una lingua a un’altra lingua.
(a cura di Rossella Renzi)
Illustrazione in copertina di Toti O’Brien, Map #1 (Iberia), Mixed Media, 30×30, 2001.
Toti O’Brien traduce Richard Garcia (I)
«Ogni singola poesia di Garcia è un universo tanto sfaccettato quanto completo, in cui è facile entrare e da cui è quasi impossibile uscire senza rimpianto». Queste le parole di Toti O’Brien, traduttrice dei testi del poeta Richard Garcia, autore di numerosi libri di poesia e maestro della prosa poetica.
Come sostiene O’Brien, numerose sono le tematiche dominanti nei testi di Garcia, al punto che non avrebbe senso proporre una selezione per temi o ricondurre le poesie a precisi riferimenti tematici. Si procede per istinto, suggestioni, echi, richiami ad elementi e a mondi diversissimi, che pure creano una delicata assonanza tra testo e testo, tra immagine e immagine, dove sogno, immaginazione, ricordo tessono le fila creando universi lontani, ma inesorabilmente legati tra loro.
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Discesa
Gira in tondo ai margini dell’Inferno,
vale a dire l’insonnia.
Ha provato anche a leggere Dante
con l’unico risultato
di rivivere il giorno in cui si perse
durante un’escursione:
la scivolosa china, troppo tardi
e troppo lontano per tornare indietro
– passo passo, di fianco, giù
per il burrone come fosse un cantiere
o un campo minato.
Non lo consolarono il modo in cui le stelle
disegnavano archi spettacolari
o le strane facce da teschi delle caverne.
Dal basso gli giunsero voci
di lontani pastori Beduini,
poggiò il piede su ogni singola pietra
con cautela di spettro.
Quando si ricorda d’aver trovato
un sacco di tela per tenersi caldo,
chicchi d’uva selvatica e un rivolo
d’acqua sul granito, si addormenta.
Ma il sonno è una scala a spirale
su cui inizia a scendere pur udendo
qualcosa di non proprio umano che sale.
Lentamente, prima un rantolo fioco,
poi un rumore di piedi che si trascinano
fino a quando eccoli faccia a faccia.
Che assurdo minotauro. Né peloso
né fetido, né come quello di Picasso.
E che strano colore, tra il rosa di una gomma
da cancellare e l’arancione ufficiale
di sicurezza, una testa da mantide religiosa
invece che da toro. E perché lo fissa
con occhi vacui come bottoni? Non
è certo Teseo. Guarda in basso,
nota che non ha gambe
e le mani sono indistinte.
Le congiunge come trattenendo un piccione
che cerca di volare. La creatura
sembra altrettanto delusa.
S’aspettava una giovane donna
in tunica di lino, con una candela accesa.
Entrambi si fermano un istante, poi
senza un cenno, un’alzata di spalle,
procedono l’uno verso il buio, l’altro
verso quel che forse sarà il mattino.
Descent
A man is wandering
through the outskirts of Hell,
that is to say, insomnia.
He’s even tried reading Dante,
but all that did was remind him
of when he was lost on a day hike:
the crumbling incline,
too late, too far to go back—
sidestepping down a wadi
as if into a construction site
or an open-pit mine.
The dramatic way some stars
were framed in precarious archways
didn’t comfort, nor did
the bizarre skull faces of caves.
He could hear the soft voices
of Bedouin sheepherders
down below, and he stepped
on each stone like a ghost.
Just as he recalls how he found
a burlap sack to keep him warm,
wild grapes and water dripping
from granite, he falls asleep.
But his sleep is a spiral staircase
he descends even as he hears
something not quite human
ascending. Slowly, faint at first,
snorting, step by step, its feet
dragging until they stand face to face.
What a disappointing minotaur.
Not hairy or smelly, not like Picassos’s.
And such a strange color, something
between eraser and international
safety orange, head more praying mantis
than bull. So what if it stares with eyes
blank as buttons—the man
is no Theseus. Looking down
he sees that he hasn’t any legs
and his hands are indistinct.
He puts them together, as if he held
a fluttering pigeon. The creature
also looks disappointed.
He had expected a young woman
wearing a linen smock, carrying a candle.
They both pause, then without a shrug
or a nod, proceed, one down into darkness,
the other up towards what may be morning.
da Rancho Notorious, by Richard Garcia, BOA Editions, Rochester, 2001.
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Miracoli
Miracoli che dovrebbero esplodermi i pensieri
mi percuotono i nervi, cadendo come schegge
di vetro tra le fauci di un pianoforte;
vetro multicolore, levigato dall’onda, sfumato
in ceruleo splendore di scarabeo
colpito da fulmini d’estate.
Non agitare il braccio ai margini del mio campo
visivo. Segnano i confini del mondo,
oltre il quale vagano i mostri.
Perché io sono l’antica Tenochtitlan, sorta su un lago
in terra di terremoti e vulcani, città nota
anche come il lontano passato. Un passato
anche noto come l’uomo del latte, l’uomo del ghiaccio
il vecchio fotografo itinerante col suo triste asinello –
e come ogni altro pezzo del mio corpo, il mio vuoto
si risveglia ai miracoli. Tu, ad esempio. Scivoli lieve
tra fiori di linoleum sbiadito, apri la porta all’uomo
del ghiaccio col suo blocco d’inverno issato sulla spalla
e il grembiule nero di cuoio. Guardalo inginocchiarsi
di fronte alla ghiacciaia, cavaliere errante, azzurra bandana
un pegno d’amore, ghiaccio sacro, vetro della memoria.
Miracles
Miracles aimed at scattering my thoughts
act on my nerves, striking them as they fall
like shards of glass into the open maw of a grand piano;
multicolored glass, worm smooth from the ocean
and tempered into a cerulean, scarab brilliance
shot through with the heat lightning.
Do not wave your arm along the perimeter
of my vision, it is the edge of my world
beyond which there be monsters.
For I am like the ancient city of Tenochtitlan
built on a lake in a land of earthquakes and volcanoes,
city otherwise known as the distant past. That past
also known as the milkman, the ice man, the grizzled
itinerant photographer with the sad pony—
and like everything else in my body, my emptiness
is called forth by miracles. You are one. How softly
you glide across faded flowers of linoleum, opening
the door for the iceman, block of winter hefted high on
his black leather shoulder apron, see how he kneels
before the icebox, knight-errant, blue bandanna
token of his lady, O sacredness of ice, glass of memory.
da The Persistence of Objects, by Richard Garcia, BOA Editions, Rochester, 2006.
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L’altra Odissea
A una certa età si diventa come Ulisse –
Ulisse, finalmente a casa e il popolo
lo detesta per aver trascinato i giovani
al massacro di Troia ed esser tornato solo
a uccidere i pochi pretendenti rimasti.
Ulisse? Che schifo! Sputano – unico superstite
con la bocca piena di favole. Eroe? Scherzi?
Un mortale qualunque, e di pessima fama.
A una certa età si diventa come Ulisse
quando Teti, la dea del mare, vendica
la morte del figlio Achille che Ulisse
ha attirato in battaglia con l’inganno e
lo fa vagare dieci anni per suo conto,
trascinando un remo, inoltrandosi così lontano
dal mare che l’ingenuo di turno chiede:
“Cos’è quel palo che ti tiri dietro, un pestello
da grano?” Solamente allora potrà infine
rientrare. È l’altra Odissea, quella
di cui i poeti non parlano, l’epilogo
meglio tralasciato. Ecco Ulisse seduto
al bar in un angolo sperduto dell’Asia
Minore. Circondato da contadini, non parla,
stanco di ascoltare le solite storie
a cui nemmeno lui crede. Pensa a Calipso,
a come le piaceva sorprenderlo da dietro
mentre se ne stava a guardare il mare,
alle esili braccia che gli circondavano
il petto. Calipso che sorride nel sonno. Ecco
Ulisse che non pensa a Calipso, di colpo
pensa al modo in cui la sabbia, i muri
della grotta e la volta stellata, tutto si solleva
e poi scende, ondeggia come il mare,
come lei che respira…
The Other Odyssey
Being of a certain age is like being Ulysses—
Ulysses, home at last, and the people
hate his guts for leading their young men
to the slaughter at Troy and returning alone
to murder the suitors, those who remained.
Ulysses, phah! they spit—sole survivor
with a mouth full of legends, no hero,
just a wily mortal with a bad reputation.
Being of a certain age is like being Ulysses
when Thetis, the sea goddess, avenges
the death of her son Achilles, whom Ulysses
tricked into going off to war. Ulysses
made to wander alone, carrying an oar,
for another ten years, to venture so far
from the ocean that some fool will ask,
“What’s that pole you’re dragging,
a winnowing bat?” Then and only then
can he turn toward home again.
That’s the other Odyssey, the one
no poet writes about, the epilogue
better left forgotten. Here’s Ulysses
sitting in a bar in some godforsaken hole
in Asia Minor surrounded by peasants, silent,
tired of hearing his own stories that even he
doesn’t believe. He thinks of Calypso,
the way she’d come up behind him,
her small arms encircling his waist
while he stood staring at the sea.
Calypso, smiling in her sleep. Here’s
Ulysses not thinking of Calypso,
turning his mind to the way everything,
the sand, the walls of the cave, the vault
of the stars, would rise and fall, waver
like the sea, like her breathing…
da The Other Odyssey, by Richard Garcia, Dream Horse Press, Apton, CA, 2014.
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La penna
La penna ricorda il rigore del calamaio; la pergamena chiara su cui scivolava senza sforzo. L’inchiostro che brillava per un attimo prima d’asciugarsi. Ricorda la piuma, la sua allegra arroganza, la sua civettuola leggerezza. E di essersi perduta. In che modo. Il suo proprietario bussò ad ogni locanda, interrogò pellegrini e viaggiatori, avete visto una penna verde smeraldo, intarsiata di tartaruga iridescente e con il pennino d’oro? La penna ricorda lo sciacquio di una piccola baia, e d’aver punzecchiato appena la mano del suo proprietario, il cui polso inerte pendeva da una riva muschiosa. Ricorda il risveglio del proprietario, che si immerse nell’acqua per recuperarla. Ricorda d’aver giocato, fingendo di andare alla deriva con la corrente, poi girandogli intorno ai polpacci per tre volte. Per tre volte, ondeggiando nella corrente, felice.
The Pen
The pen remembers the inkwell, how staid; the creamy parchment on which it slid along so effortlessly. The way the ink shimmered for a moment before it dried. The pen remembers the quill, its jaunty self-importance, its flirtatious flippancy. The pen remembers being lost. How. Its owner went from inn to inn asking wayfarers and pilgrims, have you seen a pen, emerald green, speckled with tortoise shell brilliances, a golden nib? The pen remembers bobbing into a little inlet, remembers nudging its owner’s hand as his limp wrist dangled over a mossy bank. The pen remembers its owner waking and stepping into the stream to retrieve his pen. The pen remembers how it teased, seeming to float away downstream, then turned to circle its owner’s shins, three times. Circling three times, bobbing in the current, so happy.
da Porridge, by Richard Garcia, Press 53, Winston-Salem, 2016.
Toti O’Brien, nata a Roma e residente a Los Angeles dall’inizio degli anni ’90, è l’autrice di Other Maidens (BlazeVOX, 2020), An Alphabet of Birds (Moonrise, 2020), Pages of a Broken Diary (Pski’s Porch 2021) e Alter Alter (Elyssar Press, 2022). O’Brien contribuisce a varie riviste con recensioni ed articoli su arte, cultura e società. Traduce prosa e poesia dall’italiano, dallo spagnolo e dal francese.
Richard Garcia è autore di numerosi libri di poesia tra cui The Flying Garcia, Rancho Notorious, The Persistence of Objects, The Other Odissey, The Chair, Porridge. Porridge ha vinto il premio Press 53 del 2016. The Chair è stato nominato miglior libro di poesia del 2015 da Don Share, direttore di «Poetry magazine», che ha definito l’opera dell’autore «infallibilmente lucida, vivida, umana, acuta, accessibile ed incantevole» nel suo insieme, sottolineando però che in The Chair Garcia dimostra di esser un maestro del poema in prosa, categoria estremamente difficile da valutare in quanto estremamente difficile da padroneggiare. Nato a San Francisco, Richard Garcia ha cominciato a scrivere negli anni dell’adolescenza. Una prima raccolta, Selected Poems, fu lodata per la sua «emozione… economia verbale [e] tono (la parola reagisce le immagini vengono viste)» da Octavio Paz, che inviò al giovane autore una lettera d’apprezzamento. Garcia ha pubblicato un libro bilingue per bambini, My Aunt Otilia’s Spirits/Los espíritus de mi tía Otilia, ed è stato per dieci anni poeta in residenza presso il Children Hospital di Los Angeles. Ha insegnato poesia e scrittura creativa presso il College of Charleston e l’Antioch University di Los Angeles e ha condotto ateliers di poesia in numerose città degli Stati Uniti.
Le vele. Poesia della traduzione 1
Le vele. Poesia della traduzione 2
Le vele. Poesia della traduzione 3
Le vele. Poesia della traduzione 4
Le vele. Poesia della traduzione 5
Le vele. Poesia della traduzione 6
Le vele. Poesia della traduzione 7
Le vele. Poesia della traduzione 8
Le vele. Poesia della traduzione 9
[…] La rubrica Le vele propone il secondo tempo delle traduzioni di Toti O’Brien di poesie e prose poetiche di Richard Garcia. La prima parte delle traduzioni si trova qui […]
Thanks to Toti O’Brien for these fine translations of my poems.