Something is rotten in the state of Japan: tracce di Amleto nel cinema di Kurosawa

Adattare William Shakespeare per il cinema non significa urtare la sua tradizione, bensì rinnovarne lo spirito creando un ponte coerente tra il passato e una contemporaneità in cui si avverte l’eco della tragedia umana del drammaturgo. Osserviamo l’esempio di Akira Kurosawa

Un autore «non di questa era ma di ogni tempo», lo definì il drammaturgo suo contemporaneo Ben Jonson. Da vero “Giano dei poeti”, appellativo riportato dal critico John Dryden nel suo Essay of Dramatick Poesie, William Shakespeare ha attraversato secoli e correnti culturali, affascinando i suoi lettori e imprimendo su di essi la propria imprescindibile impronta culturale. Resta l’autore più tradotto, citato, antologizzato, insegnato e adattato al mondo. La sua opera è entrata ampiamente nell’immaginario collettivo di generazioni, dove si è consolidata sotto forma di archetipi e tramite un continuo processo di imitatio, che ha permesso al Bardo di Avon di conquistare la tanto bramata immortalità dei poeti. Varcando infine la soglia del Novecento, la materia shakespeariana dunque non poteva non diventare oggetto di costante recupero e reinterpretazione da parte della settima e più giovane di tutte le arti: il cinema.

Per i cineasti che attingono alla ricca fonte shakespeariana si apre un ventaglio di svariate modalità di trasposizione possibili e questo ha indotto la critica a dividersi nell’esprimere un giudizio sui film cosiddetti shakespeariani, affrontando la problematica della “fedeltà” al testo originario.

Buon punto di partenza sarebbe ricordare il fatto che Shakespeare si è fatto spazio all’interno della storia del cinema non come semplice modello letterario, ma in quanto ampio crogiolo di temi e icone culturali, elementi che abitano i suoi testi ma che, elaborati da un autore consapevole, possono essere rievocati in contesti assolutamente contemporanei. Così appunto ritroviamo Romeo e Giulietta nella New York degli anni ’50 (in West Side Story di Robbins e Wise); oppure un Tito Andronico la cui storia attraversa le ere diventando un dramma variopinto, grottesco e assurdo, squisitamente novecentesco (Titus della Taymor); o un re Lear catapultato nel Giappone medioevale per vestire i panni di un signore della guerra divenuto pazzo (Ran di Kurosawa).

Soffermiamoci dunque su quest’ultima e particolarmente interessante tappa, esemplare del tipo di distanza che può attraversare un’icona culturale come quella del drammaturgo inglese. L’approdo del Bardo nel lontano Giappone avviene nell’Ottocento, secolo che segna una fondamentale svolta nella storia giapponese, in quanto vede l’avvento della Restaurazione Meiji, quel processo storico di modernizzazione del Paese voluto dall’imperatore Meiji dopo il contatto con la realtà occidentale. Firmata la Convenzione di Kanagawa, ha così inizio per il Giappone a metà Ottocento quel processo di westernization che da un punto di vista culturale si protrae ancora oggi.

Prendere a modello le grandi potenze occidentali non significava solo coglierne gli aspetti tecnologico-scientifici e finanziari per farli propri, ma anche assimilarne la cultura. In questa fase di frenetica occidentalizzazione, che si traduce in modernizzazione radicale, il Giappone passa da uno stato claustrale ad uno di apertura ai pilastri della cultura europea, tra i quali emerse immediatamente la figura di William Shakespeare. Molti aspetti della letteratura shakespeariana in effetti apparvero agli studenti e intellettuali giapponesi estremamente contemporanei e, di conseguenza, furono assimilati con tempestività. Lo ricorda ad esempio John Collick, osservando che le opere del drammaturgo «erano emblematiche per molti giapponesi che cercavano di creare una sorta di rinascimento parallelo nel proprio paese. […] L’enfasi sull’individualismo e il sentimento nei saggi dei critici occidentali faceva apparire i drammi specialmente significativi agli occhi di quegli studiosi giapponesi che tentavano di collocare le proprie identità in un mondo in rapida crescita»[1].

Particolare fascino fu esercitato dalla figura di Amleto, suggestivo simbolo dell’opposizione ad un potere centrale decadente. In questo stato era appunto il governo nipponico, in crisi dopo la caduta dello shogunato. «Ironicamente, sia alcuni intellettuali giapponesi che osteggiavano la modernizzazione del paese per ragioni legate al nazionalismo, subendola come un attacco alla cultura tradizionale, sia alcuni intellettuali che osteggiavano invece la modernizzazione per ragioni anti-nazionaliste, poiché temevano il successo di un imperialismo nazionalista, si trovarono a identificarsi con la figura di Amleto»[2], come sottolineato dai critici Tetsuo Kishi e Graham Bradshaw. Una delle prime testimonianze del celebre dramma in terra nipponica è del 1874, quando il giornalista inglese Charles Wirgman traduce sul giornale satirico da lui fondato (Japan Punch) il monologo del “To be or not to be”. L’anno successivo, il fumettista umoristico Robun Kanagaki iniziò la pubblicazione seriale del suo Seiyo Kabuki Hamuretto, rilettura satirica dell’Amleto, destinata così a diventare una delle opere favorite dai giapponesi ed una delle più comuni trasposizioni del drammaturgo inglese.

Assieme all’Amleto, molto apprezzato fu anche Il mercante di Venezia, che suscitò interesse in quanto il personaggio del mercante Shylock venne apprezzato come esempio di abile gestore finanziario, in tempi in cui si guardava all’Occidente per trovare modelli economici più avanzati.

Shakespeare, per questi e altri motivi (tra i quali il fatto di essere un drammaturgo importato in un Paese dotato di una ricca tradizione teatrale, costituita da No e Kabuki), diventa presto autore canonico per la formazione dei giovani giapponesi, che studiano la sua opera con un interesse speciale. Nel novero di questi studenti troviamo anche un avido lettore di Simenon, Dostoevskij, Tolstoj. Un giovane il cui nome sarà destinato ad essere associato alla stessa settima arte, che egli ha saputo influenzare nel profondo: Akira Kurosawa.

Akira Kurosawa

Kurosawa è ricordato come uno dei più importanti e originali “registi shakespeariani” e il suo nome è infatti incluso nella rosa formata da grandi come Welles, Olivier, Branagh. L’opera del maestro giapponese ci aiuta a comprendere che le possibili modalità con le quali Shakespeare può essere trasposto sono svariate e la buona riuscita dell’opera finale dipende solo dall’abilità del regista, ovvero dalla sua capacità di mantenere intatta l’essenza dell’opera shakespeariana. Essere rigidamente fedeli non è dunque necessariamente segno di un buon lavoro di trasposizione: bisogna essere cauti e non lasciarsi prendere da quella che Kenneth Rothwell ha definito “ansia di inautenticità”[3].

L’esempio di Kurosawa e di quelle che gli storici del cinema considerano le sue tre trasposizioni, sia ufficiali che non, è in questo senso emblematico. Il trono di sangue si rifà direttamente al modello del Macbeth, pur modificandone il contesto geografico e storico, ovvero trasferendo la vicenda negli anni del Giappone feudale; Ran viene concepito come film ispirato ad un personaggio della storia giapponese, ma diventa in seguito una versione nipponica del Re Lear; I cattivi dormono in pace sembra rievocare alcuni passaggi dell’Amleto, pur non essendone propriamente una trasposizione consapevole.

Questi tre film instaurano un rapporto dinamico e assolutamente libero con la propria fonte, sia essa consapevole e dichiarata, evocata per coincidenze o inconscia. Grazie alla geniale creatività di registi come Kurosawa Shakespeare può tornare a vivere nella contemporaneità, attraverso il nuovo ed evocativo medium artistico del cinema; se l’operazione del cineasta è intelligente, l’autore non ne risulta snaturato ed anzi ne viene rinnovata la memoria e la pregnanza universale del suo messaggio. Dimostrazione del fatto che Shakespeare può davvero appartenere a tutte le ere (ed altrettanti contesti culturali) è avanzata in modo particolare da una delle pellicole citate, forse la meno nota del maestro giapponese e sicuramente la più distante dalla materia shakespeariana, tanto che una parte della critica si è rifiutata di considerarla alla stregua di opera di derivazione shakespeariana. Altri invece hanno colto nella sua illustrazione di una società in preda a corruzione e immorale, legata tanto avidamente al potere da macchiarsi di gravi crimini, un perfetto parallelo con il truce mondo di individui viziati che popola il vasto corpus tragico shakespeariano.

I cattivi dormono in pace

I cattivi dormono in pace (Warui yatsu hodo yoku nemuru), pellicola del 1960 con Toshiro Mifune nel ruolo del protagonista Nishi, è un cupo noir dal tragico epilogo ambientato in una Tokyo corrotta, fertile terreno per associazioni malavitose. Il film nasce dall’intenzione di Kurosawa di girare un’opera in grado di veicolare un significato sociale ed è infatti ambientata in uno scenario contemporaneo (si parla quindi di gendai-jeki ovvero “opera di contesto attuale”). I cattivi dormono in pace esce infatti negli anni ’60, che segnano una fase di grave instabilità politica per il Giappone, in cui aveva luogo una lotta sociale per la conquista di una democrazia minata da patti iniqui con gli Stati Uniti, che desideravano mantenere controllo militare sul Giappone in vista di pericolosi sviluppi della Guerra Fredda. Il periodo di instabilità fece la fortuna delle grandi società, dato che la necessità costante di crescita economica portò a rinunciare alla democratizzazione dell’economia: tutto il potere finanziario venne di conseguenza assegnato a un numero ristretto di mega-corporazioni, le zaibatsu che tutt’oggi caratterizzano lo scenario economico nipponico. Il film racconta la vendetta personale di Nishi contro il proprietario di una di queste aziende, colpevole di aver insabbiato le prove della propria corruzione costringendo alcuni impiegati al suicidio; tra questi c’è anche Furuya, il padre del protagonista. La pratica del suicidio doveroso in ambito professionale era in effetti diffusa in Giappone e tutt’oggi permane: per i giapponesi, il concetto di giri (obbligo verso la società) ha priorità su quello di ninjô (inclinazione personale). Un suicidio per tutelare il proprio datore di lavoro è quindi considerato atto onorevole, per quanto tragico. Questa pratica tipicamente nipponica è tanto diffusa da avere una specifica definizione, yoroshiku (“ciò che va fatto”).

Nishi non accetta l’idea che il padre si sia suicidato per tutelare i superiori, uomini privi di moralità. Proprio il suo complesso percorso di vendetta è il primo elemento che rende coerente il paragone con l’Amleto shakespeariano. Amleto e Nishi combattono entrambi contro un sistema corrotto che ha macchiato la loro vita con il delitto; da un lato, l’omicidio del legittimo re, dall’altro la salita al potere di mega-corporazioni al di sopra delle parti (e della legge). Mark Thornton Burnett, uno dei critici che ha sostenuto l’inclusione di questo film nel novero delle opere di derivazione shakespeariana, osserva che «I cattivi dormono in pace approfondisce i misteri che sono al cuore del dramma teatrale, elaborando così i temi shakespeariani della falsa apparenza e della verità celata»[4], sottolineando quindi la coerenza della scelta di genere (e in effetti anche l’Hamlet diretto da Laurence Olivier è stato definito un “noir medioevale”). «Something is rotten in the state of Denmark» scrive Shakespeare nell’Amleto e Kurosawa all’epoca avrebbe certo potuto dire lo stesso del suo Giappone. Parte di questo pensiero, di questa delusione nei confronti della politica si riversa in uno dei film più impegnati e audaci del regista, in cui si riflette tutto lo spettro dell’Amleto in conflitto con la società che lo circonda.

I cattivi dormono in pace

Il tema chiave della vendetta, tipicamente elisabettiano, è poi importante punto in comune, nonché un soggetto favorito dagli autori orientali di allora e di oggi, motivo per il quale l’Amleto è entrato facilmente nelle preferenze dei lettori e degli artisti giapponesi. Forse per questo motivo, seppur inconsciamente, è sorta naturale una certa affinità tra le situazioni descritte nel dramma e quelle mostrate nel film di Kurosawa, che come dicevamo era ottimo conoscitore del teatro di Shakespeare. Si parla di citazione inconsapevole perché in effetti il regista ha personalmente negato ogni legame tra il suo film e la vicenda del principe di Danimarca, come riporta il critico Donald Richie nella sua attenta monografia del regista. Ma è anche innegabile che trovare oggi una personalità amletica sia impresa facile. Amleto incarna perfettamente le ansie e i difetti dell’uomo moderno; in esso «appare specialmente sottolineata una sindrome che tornerà ad nauseam nella cultura europea», come scrive Nemi D’Agostino, che evidenzia alcuni tratti amletici caratteristici dell’individuo contemporaneo: «insicurezza, paralisi, sterile relativismo, crisi esistenziale, vana ricerca dell’assoluto, nausea dell’io abominevole, senso di essere di troppo, depressione e malinconia, senso pascaliano di essere pazzo tra pazzi, di essere incomprensibile a se stesso e agli altri come gli altri lo sono per lui»[5].

Nel film dei molteplici personaggi shakespeariani resta comunque solo l’eco, eccezione fatta per Nishi (alter ego di Amleto) e Iwabuchi (figura parallela all’usurpatore Claudio), l’antagonista corrotto che riuscirà infine a farla franca e a tornare a “dormire in pace”. Queste due figure ricalcano piuttosto da vicino la trama shakespeariana, al punto che una scena in particolare del film, in cui entrambi sono coinvolti, ricalca quasi perfettamente uno dei più celebri passaggi dell’Amleto. Siamo nel terzo atto, scena seconda, in cui viene messo in scena il tranello del play-within-a-play, il dramma nel dramma, “L’assassino di Gonzago”. L’inganno, escogitato dal principe per mettere Claudio in condizione di confessare la propria colpevolezza (è assassino del padre), è tradotto da Kurosawa nella scena d’apertura del film. A Iwabuchi viene pubblicamente consegnata una torta che ha la forma del palazzo della sua corporazione; c’è però un dettaglio significativo che turba immediatamente i convitati, specialmente Iwabuchi: in un punto della torta sbuca una rosa, in corrispondenza della finestra dalla quale si è suicidato, gettandosi in strada, il padre di Nishi.  Al pari del principe di Danimarca, il figlio vendicatore si scaglia contro il capo che ha ordito la morte del padre attraverso l’astuzia della torta allusiva, facilmente paragonabile alla mousetrap shakespeariana. L’impostazione della scena è teatrale e magistralmente orchestrata dal regista che non perde di vista nessun dettaglio, mettendo in primo piano non solo gli sguardi agitati dei colpevoli ma anche i commenti degli osservatori. “È solo il primo atto” dice qualcuno, un altro osserva invece che si tratta di una “commedia davvero curiosa”: la teatralità dell’intera sequenza rende ancora più diretto l’avvicinamento al dramma shakespeariano. Con però una importante differenza a livello temporale della narrazione. La sequenza del dolce nuziale è inserita dall’autore a inizio film, ponendoci subito di fronte ad una aperta provocazione al potere che fornirà il punto di partenza del risoluto cammino di vendetta di Nishi. D’altra parte, nel testo dell’Amleto il protagonista presenta la sua trappola nel terzo atto. E se pure è vero, come affermano Kishi e Bradshaw, che «ritrovare Amleto nella prima metà del film significa distruggere il mistero e la suspense che Kurosawa costruisce con tanta cura»[6], è presto palese il riconoscimento di una “personalità amletica” nel personaggio di Nishi, destinata ad emergere in una scena successiva in cui verrà infine rivelata la sua identità in quanto figlio del suicida Furuya.

A questo punto la vendetta ha davvero inizio e nel film viene improvvisamente introdotta un’ulteriore figura cruciale del dramma shakespeariano, ovvero il fantasma. Esso svolge però una nuova funzione: esso non è più rivelatore, come lo spettro del padre di Amleto, bensì ulteriore strumento di vendetta. Nishi sfrutta infatti Wada, altra vittima della corporazione in realtà salvata dal suicidio dal nostro protagonista, come “apparizione fantasma” al fine di terrorizzare fino alla pazzia Shirai, braccio destro di Iwabuchi, che come tutti credeva Wada morto. Nishi attua su di lui una pesante tortura psicologica, spingendolo infine a bere una sostanza tossica (in realtà semplice whisky): un altro elemento tipico del teatro elisabettiano, il veleno, si aggiunge dunque alle casuali presenze shakespeariane delle quali questo film sembra in effetti gremito. Potremmo a queste aggiungere persino il personaggio femminile di Yoshiko, figlia di Iwabuchi e moglie di Nishi. La donna, parte della vendetta di Nishi, si rende infine conto dei crimini del padre e si schiera con il consorte che prova sincero affetto per lei. Il film non ha tuttavia un lieto fine e la morte di Nishi la porta sulla strada della pazzia. La stessa pazzia che caratterizza pienamente l’Amleto shakespeariano, essendo attribuita sia al protagonista stesso che ad Ofelia, figlia di Polonio consigliere dell’usurpatore trafitto da Amleto. Yoshiko e Ofelia non hanno altri punti in comune; inoltre, non sembra esserci un simile legame con la figura maschile (Nishi/Amleto). Il richiamo alla follia del personaggio, sia di Yoshiko che di Shirai, permette tuttavia ancora una volta di chiamare in causa il testo teatrale, in cui ampio spazio è appunto lasciato alla descrizione del “gioco di pazzia” amletico e del reale disagio mentale della disgraziata Ofelia.

I cattivi dormono in pace

A ben guardare dunque, le premesse dunque sono evidentemente shakespeariane, così come lo svolgersi della vendetta personale del protagonista; inoltre come si è visto diverse altre sono le presenze comuni tra testo e film, dal veleno allo spettro. Kaori Ashizu, interrogandosi sull’inserimento del film nel canone delle trasposizioni shakespeariane, osserva che l’operazione del regista, consapevole o meno, «deriva piuttosto dall’interesse di Kurosawa per il Giappone contemporaneo, e i modi in cui una straordinaria coincidenza di atteggiamenti feudali e moderni supporta la corruzione»[7]. Tuttavia, parlare di trasposizione non sarebbe in fin dei conti corretto: Kurosawa, dopo aver interiorizzato l’opera del drammaturgo inglese da lui tanto letto e amato, è a questo punto stato capace di realizzare un’opera che ricorda Shakespeare e ne rievoca la dimensione tragica, pur essendo una storia che ha più legami con la contemporaneità nipponica, che non con il mondo elisabettiano. Questo è evidente anche nel risolversi della storia: entrambi gli eroi vanno incontro alla morte, ma mentre Amleto raggiunge il suo obiettivo, Nishi lascia un mondo in cui, appunto, i malvagi possono dormono indisturbati, vincendo ancora una volta contro la giustizia. Nishi muore in un incidente che passa per suicidio e la stampa viene ancora una volta ingannata: ogni cosa è stata vana. Un finale amaro, lontano dallo scenario di speranza che chiude la tragedia shakespeariana.

Ma Shakespeare vive, in fondo, anche in questa pellicola, così come ne Il trono di sangue e in Ran: presenza inconsciamente chiamata in causa ma ben riconoscibile, segno di un regista che ha saputo cogliere del grande Bardo l’essenza più pura, al di là del testo e delle coordinate storiche. Evocare Shakespeare in un contesto tanto distante non significa dunque tradirne l’essenza, quanto piuttosto esaltarne la memoria, individuando nella società contemporanea i tratti di un’umanità tragica. La stessa che Kurosawa raccontava così bene nei suoi capolavori.

 

NOTE BIBLIOGRAFICHE

[1] Collick J., Shakespeare, Cinema and Society, Manchester University Press, Manchester 1989
[2] Tetsuo K., Graham B., Shakespeare in Japan, Continuum, Londra 2006, p. 3
[3] Rothwell K.S., “How the Twentieth Century Saw the Shakespeare Film: “Is it Shakespeare?””, Literature/Film Quarterly, vol. 29, n. 2 (2001): p. 82
[4] Burnett M.T., “Re-reading Akira Kurosawa’s The Bad Sleep Well, a Japanese film adaptation of Hamlet: content, genre and context”, Shakespeare, vol. 9, n. 4 (2013), p. 404
[5] Shakespeare, Amleto, a cura di Nemi D’Agostino, p. XLII
[6] Kishi, Bradshaw, Shakespeare in Japan. p. 136
[7] Ashizu K., “Kurosawa’s Hamlet?”, Shakespeare Studies, vol. 33 (1995), p. 97