La poesia comincia quando non si può più parlare ⥀ Traduzione di Henri Meschonnic
Laura Giuliberti traduce uno scritto inedito di Henri Meschonnic sull’oralità in poesia. Precede la traduzione una nota della traduttrice
to be continued ovvero essere continuo. Dell’oralità in poesia
Presentare un articolo di Henri Meschonnic (Parigi 1932 – Villejuif 2009) come uno strumento gnoseologico in grado di affrontare la questione della poesia orale non ha nulla di straordinario. Teorico della letteratura, linguista, traduttore e lui stesso poeta, Meschonnic è conosciuto soprattutto per la sua opera del 1982 Critique du rythme. Anthropologie historique du langage (“Critica del ritmo. Antropologia storica del linguaggio”) e per le sue traduzioni dell’Antico Testamento che, basandosi sul sistema di accentuazione dell’ebraico, recuperano la particolare prosodia della Bibbia. Più provocatoria pare invece la scelta di un testo in cui il “compimento” della voce è assegnato allo scritto. Ma l’apparente paradosso sta solo a indicare la prospettiva aperta dalla riflessione di Meschonnic. L’oralità in questione tende meno a delimitare uno spazio destinato alla poesia (la pagina, il libro, la scena, la piazza o il disco…) che a indicare lo spazio aperto al soggetto dalla poesia.
Un primo indizio di ciò che per Meschonnic non si riduce affatto a una questione formale lo si ha proprio nella sua traduzione dei Salmi (Gloires, Desclée de Brouwer, 2001). Contro le principali versioni della Bibbia che hanno tentato di restituire il “carattere poetico” del versetto biblico traducendolo in versi, Meschonnic identifica la poesia con il soffio che anima, esalta, avvicina le parole dei Salmi. Invece di essere una forma fissa opposta a quella prosastica, la poesia è costituita dall’uso e dalla distribuzione dagli accenti congiuntivi e disgiuntivi all’interno del testo. In quanto portatore del duplice significato di “gusto” e di “ragione del gusto”, il ta’am, (questo particolare tipo di accento ebraico) fa dell’oralità del testo sacro un luogo di consustanzialità tra senso estetico e senso logico-razionale.
L’idea di un uso del linguaggio che abolisca l’opposizione di significante e significato era già presente in Émile Benveniste (Aleppo 1902 – Versailles 1976), il linguista che più ha influenzato Meschonnic e al quale, non a caso, si trovano diretti riferimenti nella traduzione proposta di seguito. Nell’articolo “La nozione del ‘ritmo’ nella sua espressione linguistica” (in Problemi di linguistica generale, il Saggiatore, Milano, 1971) Benveniste si appoggia alla filologia per sdoganare il termine “ritmo” dalla dimensione accessoria che gli è generalmente accordata, quella della constatazione di una regolarità. Ripercorrendo la stratificazione etimologica della parola nella cultura classica, egli mostra che prima di Platone il greco ruthmos e la sua radice reo (“scorrere”) non erano affatto riferiti all’infrangersi dei flutti marini e alla loro ripetitività. L’immagine dell’onda come cadenza del tempo sarebbe piuttosto la metafora che ha finito per imporsi a spese dell’idea di sviluppo insita nel termine greco.
Ripartendo da questa analisi Meschonnic elabora la sua poetica – poetica e non linguistica, perché nel suo approccio della lingua l’universale lascia spazio allo storico e al soggettivo – come critica del ritmo – critica e non teoria, perché il lavoro della poetica è quello di disfare continuamente le categorie che qualsiasi concezione della lingua come sistema chiuso e assoluto produce. Compito della sua antropologia storica è quello di “deplatonizzare la nozione di ritmo1”, sottrarlo cioè al dualismo linguistico che avrebbe trovato nello strutturalismo il suo pieno compimento. Nel Cratilo egli individua, infatti, le origini di una tradizione che ha fatto del linguaggio un mero specchio dell’essere, concepito come separazione e opposizione delle idee. Ridotta alla divisione nei suoi ultimi elementi (stoikeia), l’essenza del linguaggio sarebbe quanto di più estraneo alla vita si possa immaginare. Grazie a Benveniste e alla sua formulazione di una linguistica non più fondata sul segno (origine di tutte le dicotomie derivate dall’opposizione di significante e significato) ma sul discorso (dimensione vivente della lingua) Meschonnic può dare una definizione del ritmo che non ha nulla a che vedere con l’alternanza di momenti deboli e momenti forti all’interno di un mero conteggio sillabico.
Definisco il ritmo nel linguaggio come l’organizzazione delle marche attraverso cui i significanti linguistici ed extralinguistici (soprattutto nel caso della comunicazione orale) producono una semantica specifica, distinta dal senso lessicale, che io chiamo la significanza: cioè i valori propri di un certo discorso e di uno solo. Queste marche possono collocarsi su qualsiasi ‘livello’ linguistico: accentuale, prosodico, lessicale, sintattico. […] Organizzando insieme la significanza e la significazione del discorso, il ritmo è l’organizzazione stessa del senso del discorso. E siccome il senso è l’attività del soggetto dell’enunciazione, il ritmo è l’organizzazione del soggetto come discorso nel e attraverso il suo discorso2.
L’organizzazione formale di un soggetto è l’azione più esigente che la poesia possa muovere dall’interno del linguaggio. In quanto produzione linguistica, essa è parte di un sistema che si basa sull’opposizione di parole e cose, di forme e contenuti e che è insomma il principio di discontinuità che fa del rapporto dell’uomo al mondo e a se stesso un rapporto mediato. Tuttavia, come compimento dell’oralità essa è in grado di produrre una semantica che mette in risonanza elementi lessicali, grammaticali, prosodici, retorici, etc., del discorso destituendo di ogni valore la divisione del linguaggio in diversi livelli. Semantica della continuità, che ha per altra faccia l’affermazione di una soggettività.
Il linguaggio ci priva di identità offrendocene una che non è niente di più di un assemblaggio di lettere che appartengono solo a lui e che noi ritroviamo sparse un po’ dappertutto3.
Senza chiamare in causa il cogito cartesiano e il paradigma della modernità o l’alienazione del desiderio in Psicanalisi, bastino le parole di un poeta del silenzio (visto che anche di silenzio si tratta nell’oralità di Meschonnic) per cogliere il senso della discontinuità a cui il linguaggio introduce il soggetto e a cui risponde la poesia. C’è oralità quando si annuncia un senso che non sta più nelle parole, più di quanto le parole non stiano più chiuse in se stesse, poiché è la loro stessa materia, letterale, fonetica, che diventa oggetto del linguaggio. Ripristinare il continuo è l’utopia della poesia, il compito che essa deve di continuo ricominciare. Solo così può farsi luogo di un soggetto a venire, quello a cui ancora non è stato assegnato un nome, solo così può farsi “l’anonimato di ogni soggetto”.
(Laura Giuliberti)
La poesia comincia quando non si può più parlare4
Parlare è parlare-di. Parlare di qualcosa, di qualcuno, parlare di sé, parlare del più e del meno. È il movimento logico di un soggetto, che è vagamente e alla lontana il soggetto filosofico, verso un oggetto. Dico parlare, ma potrebbe trattarsi altrettanto di scrivere. Poco importa se parlato o scritto. Poco importa se banale o no. Parlare-di è un movimento la cui continuità apparente cela la discontinuità di fondo. C’è un abisso incolmabile tra chi parla e ciò di cui si parla. Un’eterogeneità radicale. Si parla di, si parla su. Ciò che viene detto dipende da come si coglie o da come non si afferra. Anche se l’oggetto è un’invenzione della parola.
Ma una poesia non parla-di. Anche quando sembra farlo. La poesia si situa interamente nel dire. Qui bisogna subito differenziare due usi radicalmente diversi di ciò che si presenta come un’espressione univoca: dire qualcosa. C’è, infatti, un dire banale, direi transitivo esterno, semantico e semiotico, e un dire intensivo, semantico senza essere semiotico, come pensava Benveniste. Transitivo interno, nel senso che tra il dire e la cosa detta c’è una sorta di omogeneità, o di omologia. Nel senso che tra loro s’instaura un continuo tale da far entrare in qualche modo la cosa nel dire stesso e, reciprocamente, tale da integrare il modo specifico di dire alla cosa detta. Pensiero o sensazione che sia.
D’altra parte, lo diciamo in continuazione. Forse senza pensarci abbastanza. Quando diciamo, ad esempio, dire l’amore, dire il tempo, dire la sventura dei tempi5, o tante altre cose. Dire ha allora una caratteristica del tutto particolare. È tanto un modo di enunciazione quanto un modo d’agire, di fare con il linguaggio ciò che solo la poesia può fare – ma dico poesia in un senso molto ampio, molto più ampio del senso stretto e formale della tradizione, lo dico di ogni discorso che realizzi questo tipo di recitativo.
Difficile da realizzare, difficile da afferrare. Ce lo lasciamo scappare senza nemmeno rendercene conto. Basta dire poesia d’amore, banalmente, e siamo già passati dal dire al parlare-di. È possibile che la poesia non faccia altro che parlarne – allora non è ciò che chiamo poesia, ma un enunciato che si comporta come se lo fosse – oppure può darsi che non stiamo leggendo poeticamente una poesia. Stiamo leggendo il segno dentro di lei.
Al contrario di tutto ciò che è stato pensato a proposito dell’intransitività dello scrivere, dell’assolutizzazione, della sacralizzazione, questo dire è come un grado estremo della transitività, poiché la relazione che esso implica suppone un passaggio interno dal soggetto al suo oggetto. E se l’oggetto del pensiero è un oggetto interno, ciò è dovuto al fatto che l’oggetto stesso è pieno del soggetto e che il dire è trasformato da questo stesso soggetto. Bisogna intendere qui un soggetto specifico, lo chiamo soggetto della poesia, poiché non sono né il soggetto psicologico né il soggetto filosofico né tantomeno il soggetto freudiano che possono fare di questa enunciazione una trasformazione a catena, del soggetto, del dire, dell’oggetto. Ragione per cui, appunto, può essere detto interno.
La poesia non parla-di, perché il suo elemento non è il segno, ma ciò che scorre – il ritmo – nel continuo che lega le parole tra loro sotto il discontinuo del senso.
L’aspetto comico di un tale pensiero è che la poesia non l’ha mai nascosto. Fin dall’Antichità essa dice questa transitività, che è allo stesso tempo visibile e segreta nel Eipe moi Mousa, “Dimmi o Musa” di Omero e nel celebre Arma virumque cano “Le armi e l’uomo canto” di Virgilio nell’Eneide, dove cantare equivale al superlativo assoluto del dire. È vero che se ne è sempre data una lettura banale, esterna, quella del parlare-di. La chiamerei la lettura più facile, come dicono i filologi, la lectio facilior. Ma è la lettura più difficile, la lectio difficilior, che è sempre la più feconda e la più rivelatrice, in questo caso, di ciò che fa la poesia.
Allo stesso tempo bisogna ammettere che è possibile che non la vediamo, che non la sentiamo. Ma una cattiva vista non è mai stata un criterio per la pittura e la sordità a una certa sfumatura prova solo la sordità a quella particolare sfumatura. In una certa misura, fare a meno della poesia o parlarne è quasi la stessa cosa.
Si può parlare di qualsiasi cosa. Ma il segno ha i limiti del segno. Basta un evento infimo per incapparvi dentro. E l’infimo è proprio ad ogni istante poiché appartiene al sentimento stesso di vivere e al sentimento di tutto ciò che non è stato detto quando se ne è parlato. Il fatto è che, in un certo senso, non si è ancora detto nulla.
Per dire le cose e non per parlarne, è necessario che la poesia si ascolti, che il soggetto della poesia si ascolti. Ha bisogno di un silenzio particolare, non del silenzio che si oppone al rumore, del silenzio esterno che si oppone al rumore esterno, ma di un silenzio che sia anzitutto nella testa, nel corpo, ed è necessario che questo silenzio resti, poi, nelle parole, si senta nelle parole, che resti nell’ascolto anche dopo le parole.
Perché questo silenzio si dia, bisogna essere arrivati al limite del parlare-di, aver sfiorato l’impossibilità di parlare-di. Bisogna che quest’invasione di silenzio tolga il respiro, bisogna che il linguaggio entri nel corpo. Questa piccola morte della parola, del parlare-di, è la condizione del dire. La voce, a partire da quel momento, è un’altra voce.
Ne deriva che ciò che chiamiamo con il termine così confuso di ermetismo, confuso perché vi mischiamo dentro diversi ermetismi, è lo stato iniziale della poesia, di ogni poesia. Ogni poesia è ermetica se è una poesia, anche se sembra perfettamente chiara, proprio perché contiene questo silenzio, questa metamorfosi della voce. Ma prima bisogna ridefinire l’ermetismo, non come oscurità, ma come l’estinzione della differenza tra il chiaro e l’oscuro. Poi ci sono, senza dubbio, diversi tipi di ermetismo, forse tanti quanti sono i soggetti dentro di noi. Non bisogna limitarsi all’ermetismo allusivo, quello del soggetto cosciente e volente, l’occultazione volontaria del senso, totale o parziale, orientata, particolare. C’è anche un ermetismo del continuo, che non è affatto un’occultazione voluta, anzi, è un’occultazione operata dal segno. Ed è questo ermetismo che è lo stato banale della poesia, proprio come la transitività interna da soggetto a oggetto è la sua azione principale. In fondo, si tratta di due aspetti della stessa attività.
Ma è possibile che non lo sentiamo. Allora nella poesia leggiamo il parlare-di. Sentiamo il discontinuo dei segni, non sentiamo il continuo del corpo-linguaggio, del soggetto-oggetto, che costituisce il recitativo della poesia e che non è altro che silenzio per il rumore dei segni e della comunicazione del senso. Allora non sentiamo affatto.
O meglio bisognerebbe dire, sarebbe più giusto dire, che sentiamo ma che non sappiamo di sentire. E non è che un’altra considerazione piuttosto banale. Non facciamo altro che parlare senza sapere cosa stiamo dicendo, senza sapere tutto ciò che diciamo e cosa fa agli altri ciò che diciamo. Non facciamo altro che agire senza sapere cosa stiamo facendo, senza sapere tutto ciò che facciamo. In ognuno di noi la lingua si caratterizza proprio per questo fatto: che non sappiamo e non abbiamo bisogno di sapere come essa lavori per poter parlare. Agire attraverso il linguaggio. È così banale che c’è stato bisogno di un linguista per scoprirlo. Allo stesso modo in cui il soggetto del parlare-di parla, ma non sa cosa faccia la sua lingua, il soggetto della poesia, anche lui come ognuno degli altri soggetti che siamo, non sa e non può sapere tutto ciò che fa la poesia né come lo fa. E lo stesso vale per il lettore. Il soggetto della poesia, infatti, non è assimilabile al soggetto filosofico, psicologico. Il soggetto della poesia è ecceduto. Perpetuamente ecceduto. Dalla poesia. Si cerca ma non sa mai se si trova, dove si trova né a che punto è. Poiché dev’essere ovunque allo stesso tempo. È il soggetto della poesia nel senso che è lui che fa la poesia; è il soggetto della poesia nel senso che è la poesia che lo fa e che l’attività della poesia è produrre soggettività; infine, è il soggetto della poesia nel senso di chi diventa soggetto tramite il riconoscimento che gli dà la poesia. È anzi proprio per questo che il soggetto della poesia è fondamentalmente un soggetto etico, essendo un soggetto nella misura in cui altri sono soggetti attraverso di lui. È una catena. E una trasformazione. E siccome questa trasformazione avviene nel racconto del continuo, che è il recitativo della poesia, il racconto del discontinuo non ha nulla da dirne, non può dirne nulla. È per questo che sentiamo ma non sappiamo di sentire, né sappiamo tutto ciò che sentiamo. Ma ciò non toglie che questa azione della poesia esista. Essa si mostra, ma non può essere detta dal senso delle parole. Perciò può rimanere a lungo sotto gli occhi di tutti senza essere né vista né sentita.
Come La Fontaine che se ne andava in giro a ripetere: “Avete letto Baruch?”, avrei voglia di re-citare alcuni meravigliosi esempi. Mi limito a farne uno. È l’esempio dell’Hamlet, dove il nome di Ophelia ha ogni volta, nelle immediate vicinanze, una parola che possiede gli stessi elementi, consonanti, vocali (fair Ophelia, fear Ophelia…) e la lista completa di queste parole dice il carattere e il destino del personaggio: c’è un continuo dalla significazione alla designazione, qualcosa del senso delle parole entra nel nome Ophelia (che non ha senso in sé) e qualcosa del nome di Ofelia entra nelle parole. Ma ciò non avviene tramite la relazione logica del senso. Avviene proprio tramite il continuo da un significante a un altro.
D’altra parte sono molti i modi di agire del linguaggio che ci trasformano in burattini del senso senza che ce ne rendiamo conto, uno per tutti è ciò che chiamiamo propaganda. Il termine oggi non è più di moda. È un termine sospetto. Poiché il suo trionfo è l’azione silenziosa.
Ma il silenzio della poesia non appartiene a quest’ordine. A dire il vero, il silenzio della poesia non dà nessun ordine né impone esso stesso alcun ordine. Tuttavia tenta di fare il massimo che può fare il linguaggio: fare il continuo tra il linguaggio e la vita. Nella sua banalità, la poesia porta il linguaggio a un estremo.
[…]
Se la poesia fa ciò che non possono dire le parole, con la stessa materia di cui è fatto il linguaggio di ognuno, è perché la sua prosodia diventa un’avventura soggettiva. L’atto più radicale di soggettivazione del linguaggio in tutti i suoi elementi.
L’oralità allora cambia senso. Non è più il suono, che sentiamo, opposto a ciò che vediamo scritto. Non è più qualcosa che possa confondersi con il parlato. È invece il continuo della significanza, il continuo del soggetto della poesia. Non è più esattamente ciò che crediamo di sentire. Ciò che sentiamo è il segno, il discontinuo del linguaggio. Del suono e del senso. La voce e la lettera. E il discontinuo impedisce di sentire il continuo. Fa del continuo il silenzio del segno. L’oralità è questo silenzio del segno. O ancora: l’oralità è il silenzio del soggetto nel rumore del segno. Quando ascoltiamo poeticamente una poesia, è questo silenzio che sentiamo. E il rumore che fa il parlare-di, lo paragonerei a ciò che Éluard chiamava il “terribile concerto per orecchie d’asino”.
E anche la rima cambia senso se riconosciamo la mutazione dell’oralità. Essa appare come la catena di rapporti che intratteniamo con il linguaggio. È interessante vedere come la rima finale obbligata, nel verso classico, che rendeva quei rapporti ostensivi, avesse finito per renderli inaudibili – cioè formali – a forza di sbandierarli. Ed è la sua diffusione nella poesia simbolista, fino alla saturazione, poi la sua scomparsa (relativa) come principio canonico, che le hanno restituito il suo potere di significanza. A buon intenditore poche parole.
Dunque non ci sono più “la lettera e la voce6”, l’orale e lo scritto, queste coppie della totalità, uno più uno uguale tutto, come i versi e la prosa per il Maestro di Filosofia del Signor Jourdain. Non solo per via della diversità insita nello scritto e nella vocalizzazione del soggetto, ma perché questa dualità impedisce di sentire una proprietà che solo il recitativo del continuo realizza.
Per pensarlo, bisogna isolarlo. È per questo che distinguo il parlato, lo scritto e l’orale. E definisco l’orale, l’oralità attraverso la prevalenza del continuo sul discontinuo, che sia nel parlato o nello scritto. Da cui una semantica seriale. Tutti quanti concordano sul fatto che Rabelais sia un autore orale. Ma che anche Proust lo sia. E che invece passi per un autore scritto rispetto a Céline. Ma tutto ciò viene meno se distinguiamo il parlato dall’orale, perché l’imitazione del parlato è tutta un’altra cosa e, in più, sappiamo che in Céline c’è anche del falso parlato, qualcosa che è addirittura impronunciabile.
La poesia mostra che, contrariamente all’opposizione tra la lettera e la voce, solo lo scritto, quando è poesia, porta a compimento la voce.
La letteratura, in questo senso, non si oppone al parlato. Non si divide più in letteratura scritta e letteratura orale. Esce dall’antropologia del segno. Il parlato si oppone all’assenza di parlato, lo scritto si oppone all’assenza di scritto. Ma la letteratura, che sia verso, linea, o prosa, quando è la parola del continuo più che del discontinuo dei segni, cioè quando merita di essere chiamata letteratura e non ciò che spesso viene messo in commercio sotto questo nome, è lei la sola realizzazione plenaria dell’oralità.
La voce del parlato è solo la voce fisica, con la sua fisiologia, la sua antropologia, la sua sociologia.
Quanto alla poesia, in relazione alle organizzazioni dell’immaginario, alle moltiplicazioni del soggetto nel teatro, essa è l’oralità senza storia. La poesia è senza storia. Essa dice il suo recitativo. Essa è l’anonimato di ogni soggetto.
Il suo rapporto con il linguaggio detto ordinario è paradossale. Sono stati opposti a lungo linguaggio poetico e linguaggio ordinario. Credo che alcuni continuino ad esprimersi in questi termini. Ci ho messo molto tempo a capire che queste due espressioni non vogliono dire niente. Sono entità reali. Fantasmi.
Ci sono solo avventure singolari ed esse hanno luogo nel linguaggio ordinario perché non ne esiste nessun altro, proprio come non esiste nessun’altra vita rispetto a quella che chiamiamo quotidiana.
Lo scarto che vediamo tra il poetico e l’ordinario è l’espressione stessa dell’incapacità di pensare il continuo con qualcosa di diverso dai concetti del discontinuo. Del parlare-di. Estrarre il continuo dal discontinuo è il lavoro della poesia. È l’ascolto dell’ordinario.
Note
1 Henri Meschonnic, Gloires, Desclée de Brouwer, 2001, p. 21.
2 Henri Meschonnic, Critique du rythme, Verdier, 1982, p. 216.
3 Edmond Jabès, Du désert au livre. Entretiens avec Marcel Cohen, Opales, 2003, p. 18.
4 Nota di Régine Blaig: questo testo manoscritto è stato redatto tra il 14 e il 15 novembre 1996 per un omaggio a Paul Zumthor, intitolato “La Lettre et la voix”, che doveva tenersi il 26 novembre presso l’Istituto italiano di Cultura, 40, rue de Varennes. Non so se sia mai stato pronunciato. Da quanto ne so è rimasto inedito. Non ho trovato nessuna traccia di pubblicazione né sua né della manifestazione. Quella sera Henri Meschonnic ha letto delle poesie.
5 [NdT] Su quest’uso del verbo dire in italiano si veda dire .9 in Grande Dizionario della Lingua Italiana, UTET, p. 526.
6 Titolo del saggio di Paul Zumthor, La Lettre et la voix. De la “littérature” médiévale, Seuil, Paris, 1987, trad. it. La Lettera e la voce. Sulla «letteratura» medievale, il Mulino, Bologna, 1990.
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