Tre prose inedite da Cicalate di Alessandro Settimo ⥀ Passaggi

Oggi la rubrica “Passaggi” esplora tre prose inedite tratte da Cicalate di Alessandro Settimo. Vi immergerete in un viaggio estatico a Spresiano, vivrete un sogno surreale in un monastero, e attraverserete ricordi storici lungo un corso d’acqua. Le prose sono arricchite da un’illustrazione di Iaia, che ne cattura l’essenza. L’editoriale della rubrica può essere letto qui

Illustrazione in copertina di Iaia, L’uomo del nuovo passato, 2023.

 



 

1. Paraggi di Spresiano

Finalmente, l’istante estatico, l’intuizione sùbita del dolce incanto della vita. Sono a Spresiano, in automobile. Veggo un cartello: mercato dell’usato. Scendo, tutto chiuso. Sono appena le due di pomeriggio. Mentre mi sfilo i guanti, la sento, sento l’insostenibile soavità dell’esistere ‒ «nunc stans», attimo eterno, brevissimo cioè inesteso, ma istante immenso, fuori del tempo, tutto fitto nello spazio. Prendo una penna, senza tappo, pilot fine, blu. Il foglio accartocciato d’una qualche dimenticata provvigione – non si sa di chi o cosa. Mi avvicino a un blocco di cemento. Avanti a me, campagna incolta, fumo da una ciminiera, tralicci, ghiaia sparsamente, nessun essere umano, nessun animale: fuggono colle automobili sulla statale, i primi; ristanno sventrati sulle prode della strada, i secondi. Nulla all’orizzonte, se non sparute casipole, macchie di bosco scampate all’abbattimento, e al fondo, sinuosamente, le cime prealpine innevate, dalle quali spira gelido vento come intiepidito, però, e gaiamente, dal pacato rosseggiare del sole. L’estasi: già scomparsa. Plotino – secondo racconta Porfirio – due o tre ne ebbe. Forse proprio come Plotino, qui, frattanto che mi guardo, in questa desolazione, alle spalle, già che fruscii di foglie mi paiono furtivi passi, forse proprio come l’autore di quelle sublimi enneadi, nella mia mente s’è in un certo, insperato senso agglutinata la trucibalda ma, almeno in questa tarda ora, non smentita idea, che sì, starsene al mondo, sia pure in questo mondo (e tremo a dirlo), magari lontani dalla improvvida presenza umana, qualche anno, decennio – non è poi tanto male.

 

2. Una congestione

Riporto un sogno – un incubo – della notte trascorsa. Assisto a una scena, che compare dinanzi ai miei occhi come fosse un’evocazione, un flashback di una persona (nella fattispecie una donna o almeno una voce femminile) intenta a raccontarmi ciò che usa accadere – di conveniente, di sconveniente – in una specie di monastero. (Quanto inadeguate sono le parole a restituire i sogni: di essi, del loro senso insostituibile e intraducibile, non ci rimane che una traccia, come una memoria d’un sepolto speciale godibile, o orrido, clima: il sogno è irraggiungibile e irriproducibile «per verba», sfugge all’impero formale delle parole ‒ le quali, ciò non ostante, s’accaniscono poiché, malgrado proprio tutto, il sogno ci pare la nostra realtà la più vera; per contro e a riprova, la realtà comunemente intesa si accetta senza ambagi solo perché si intuisce nulla è reale fuor che il sogno: sia esso stupefacente o tremendo). Veniamo dunque alla scena: quando una novizia, un’affiliata dell’innominata setta, delle cui vicende vengo appunto messo a parte, ha le «piattole» (mi sembra fosse questo il termine della narratrice), la si spoglia ignuda, la si trattiene (vedo, come in una vignetta fumettistica, un capannello di suore stringerle braccia e gambe), le si divaricano le cosce e, con una ferrigna ganascia, non capisco se si cerchi di estrarre tali «piattole» oppure di sigillare le labbra, come s’esprimeva il poeta, della segreta profonda belluina delicata, seconda bocca della donna bilingue. Tostoché, però, la ganascia s’avvicina al pube – o «peach-cleft», per citare Robert Browning (o meglio Nabokov) – della sventurata, con mio notevole raccapriccio e disgusto, noto delle antenne uscire dall’«origine du monde», quindi, tutt’intera, ecco che allibito veggo evaginarsene una aragosta, verminosa, viscida e lingueggiante, biancastra e bislunga come un millepiedi, e poi un’altra, e un’altra ancòra, finché, con mio sommo orrore, una di queste bestiacce immonde, più polposa delle altre, tra le grida terribilmente sguaiate della ragazza afflitta da siffatto teratologico male, morde, quasi fagocitandolo, un braccio della straziata giovane. A quel punto mi sveglio. Ragiono. Credo si debba imputare il delirio ai miei gorgoglianti umori gastrici. Mi risovviene che, all’università, il prof. P. era solito affermare che larga parte – presso che la totalità – delle visioni sono cagionate da dispepsia. Aggiungo: visioni sia diurne che notturne. E cioè, sia la quotidiana esperienza, che l’esperire onirico. Visione è sia il sogno (per me, l’incubo), che la così detta realtà – entrambi, del resto, umorose secrezioni del nostro sconvolto organismo. Mi s’accende, per finire, un ontoso almanaccare: se guardassimo alla Storia con occhio clinico, se riuscissimo a comprendere quanti accadimenti storici sono dettati, a esempio, dal mal di stomaco, forse il terreno teatro del mondo sarebbe più nitidamente fruibile.

 

3. Il ruio

Ormai mi desto tardi al mattino. Nella prigione in cui vivo oggi e da cui non posso uscire, aspiro alla felicità. Ma l’assuefarsi è duro, perché il clima è disumano. E non lo dico io – ma Cendrars. A ogni buon conto, come ogni giorno, il sole allo zenit, costeggio il ruio, recentemente sventrato, orbato della sua prolifica palude dalle distruttive Ruspe degli Eterni Lavori Pubblici; vado a comprare quel nostro pane quotidiano che Lui non ci dà – ché ci bisognano i quattrini. Mentre vengo rincasando, dunque, mi si fa incontro, in bicicletta, un vecchiardo, maschera al collo (accessorio d’ora innanzi immancabile in ogni descrizione, temo), trafelato. Si ferma a pochi passi da me. Con occhi trasecolati mi fissa. Pavento uno stolido rimbrotto oppure un colpo apoplettico. Invece no. Bercia un po’ affannosamente: «Quel cement lì, l’à fat Musolini!». Sono perplesso. Volgo lo sguardo all’argine del ruio che le sunnominate Ruspe Annientatrici hanno scoperto – rimovendo decennale, fertilissimo fango – settimane addietro. «Quel cement lì, l’à fat Musolini!», ripete. «Lei dice?», rimbecco. Annuisce. E aggiunge: «E il Ponte de la Libertà, a Venesia, l’à fat Musolini! In oto mesi!». Quindi riprende a pedalare; se ne va. Non so che pensare. Quel vecchiardo mi sembra un inesplicato presagio, una profetica apparizione. Che significato attribuirgli? Non so, non so. Torno a casa, entro in camera. Accendo un toscano per innescare le mie smorte sinapsi. Ma sì, ci sono. Ecco perché mi ha talmente straziato l’emergenza di quell’argine e la rimozione violenta della paludosa, fosca vita di nutrie, anatre, garzette – del mai sopito e faunistico germinare del ruio. Ci siamo. È il ritorno di Mussolini. Di un Mussolini – di un fascismo – che non viene solo dal futuro, ma anche e sopra tutto dal passato profondo; di un fascismo che è come una falda cementizia – inscalfibile, immutabile – sottesa, e sempre pronta a essere dissepolta, a ogni velleitario tentativo di starsene beatamente in santa pace, crogiolandosi nel proprio lieto rivolo, nel proprio cheto stagno. È proprio così: no vecchio, non t’inganni: «Quel cement lì, l’à fat Musolini».

 

 

 


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Iaia, L'uomo del nuovo passato, 2023
Iaia, L’uomo del nuovo passato, 2023.