TSO Tortura Sanitaria Obbligatoria ⥀ Racconto di Sarah Di Piero
Sarah Di Piero, già autrice della raccolta poetica Reparto da qui (Argolibri, 2019), scrive un racconto di denuncia del trattamento di natura sanitaria denominato TSO. Introduce il testo Rossella Renzi, già curatrice del volume
Un racconto breve, un frammento sulla soglia del risveglio, una storia brutale che denuncia la mancanza d’aria, di ossigeno, di luce… di umana presenza.
Un testo carico di tormento e allo stesso tempo lucido, quello di Sarah Di Piero, che richiama la dolorosa esperienza delle pratiche di cura della malattia mentale. Pratiche di cui si conosce pochissimo, di cui non si parla, che provocano disagio anche solo pronunciandone il nome, brevissimo: quella sigla, così essenziale e concentrata, che in sole tre lettere trasmette un brivido.
(Rossella Renzi)
L’immagine in copertina è stata realizzata da Valentina Vallorani su diretta ispirazione del racconto.
TSO Tortura Sanitaria Obbligatoria
Racconto di Sarah Di Piero
Non so se piove o se fa freddo. Il meteo è diventato un aspetto lontano da me già da settimane. Però, adesso, a cosa pensare? Che fuori può far freddo quanto vuole, tanto non posso muovermi da qui.
Ci ho provato, ma non posso proprio alzarmi dal letto, divincolarsi è inutile. Le altre volte ero riuscita a slegare le mani e a usare il cellulare che avevo sopra al comodino, ma stavolta mi hanno legata davvero bene.
Quando il medico ha detto «ti-esse-o», sono scappata fino alla fine del corridoio, dopo la sala-fumo, dentro la sala-TV, l’ho chiusa appoggiando tutto il corpo alla porta, ma a che serviva contro quattro infermieri, una donna e tre uomini, questi alti e grossi? Contro loro sembravo una margherita sotto la zampa di un elefante.
Un’iniezione e mi sono risvegliata sul letto. Già legata.
Adesso forse fuori piove. La finestra è talmente sporca che non si capisce se c’è il sole. Non so nemmeno da quanti giorni sto qui.
Il medico, quando mi sono risvegliata, era lì con i suoi amici infermieri. Vedendo che c’era un foglio sul mio comodino, ha chiesto a uno di loro di passarglielo. C’era una mia nuova poesia scritta sopra. Ha fatto un sorriso che mi ha spaventata e se n’è andato dicendo di farmi tre siringhe al giorno di questi sedativi che mi fanno addormentare subito.
All’inizio, quando mi svegliavo, iniziavo a battere i piedi sul fondo del letto. Urlavo parole senza senso. Solo per urlare. Solo per scappare da lì almeno con la voce.
Non c’era reazione di pietà da parte del personale sanitario, ma qualche compagno di disavventura – intendo altri pazienti – talvolta si affacciava. Una volta, uno di questi mi fece telefonare: «Ciao Papà, sto bene, ma mi hanno legata». Dovetti chiudere subito la chiamata, perché questo amico non poteva stare lì con me.
A un certo punto, devono avermi aumentato il numero di iniezioni, perché non ricordo di aver più avuto tempo di pensare, come sto facendo ora. Forse hanno ridotto le dosi e mi libereranno?
Tra un sogno e l’altro, mi sfilavo il pannolone e facevo pipì nel letto. Un urlo silenzioso, una sorpresa per gli infermieri: così dovevano cambiare le lenzuola, ma non so se lo facessero realmente.
Poi una volta mi sono risvegliata, perché qualcosa premeva forte sul mio volto. Non potevo liberarmi. Non potevo dimenarmi. Non vedevo. Ma soprattutto non respiravo.
Quando tolse il cuscino con cui mi stava soffocando, vidi il sorriso di uno di loro: uno di loro di cui mi fidavo di più.
Il suo sorriso mi fece così schifo che gli sputai in faccia.
«Ehi! Come ti permetti? Guarda che sono un pubblico ufficiale in questo momento!»
Gli sputai in faccia un’altra volta.
Poi devo essermi di nuovo addormentata, non ricordo.
Adesso fuori piove. Ne sono certa. Sento il ticchettio. E non è il tempo che passa.
Fuori piove e ho sonno, ma ho paura ad addormentarmi. Quando mi libereranno?

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