“Tutto a un tratto” ⥀ Su una prosa da “Materia osservabile” di Florinda Fusco

Una riflessione di Luciano Mazziotta su poesia e filosofia a partire da una prosa di Florinda Fusco contenuta in Materia osservabile (La Vita Felice, 2023)

 

Le occasioni

Durante, ma soprattutto dopo l’ultimo incontro sull’opera di Giuliano Mesa tenutosi a Bologna, tra la ricerca di cibo e un bicchiere di vino, chiacchierando, la discussione si è spostata sul rapporto (ancora e ancora) tra poesia e filosofia; in sostanza su un possibile versante filosofico della poesia italiana contemporanea, inclusivo e non-escludente. Questa lettura di una prosa tratta da Materia osservabile di Florinda Fusco nasce da quel dopo. Come ogni occasione, se si fosse conclusa lì sarebbe stata una perdita. Se non dovesse procedere, sarà il solito spreco.

 

La cornice della frase

Conosci la struttura delle stelle. Maglietta di pizzo nero. Reggiseno bianco. Una catena d’oro con tre medagliette: la Sacra Famiglia, S. Giorgio e Cupido. Figura d’interferenza: provare a cancellare il passato. A rimettere a fuoco. Rendere la lente nitida. Guarda in basso a sinistra: dopo che il fotone-segnale ha colpito lo schermo. Si può procedere per la cancellazione delle informazioni del passato. I capelli bianchi spuntano sotto la tinta color platino. Le sopracciglia assottigliate davanti allo specchio. Una matita color argento attorno agli occhi. Volto gonfio e rugoso. Palpebre appesantite. Borse sotto gli occhi. Sottomento carnoso. Dici che ti fanno senso i peli, anche sul pube. Occorre tagliarli a zero. La gravità esercita la sua influenza ovunque. Dici, ancora, che tieni lontano gli uomini perché pensano solo al sesso. Stai pensando a quale lavoro inventarti adesso. La voce forse. Le voci potenziali. Fluttuazioni possibili parallele. Continua a immaginare. Le cose devono trovarsi nel vuoto.
(Florinda Fusco, Materia osservabile, La Vita Felice, collana Adamàs, 2023)

Florinda Fusco, sin da Thérèse (Polimata, 2011), passando per Il compleanno (Argo, 2022), gioca con il limitato e l’illimitato, finitudine di un diario e infinito dell’interpretazione, con l’osservabile e l’inosservabile, con il numerico e l’incalcolabile, con la chiarezza e l’ambiguità. Qui, in questa prosa, contenuta in Materia osservabile, incornicia il dettato all’interno di due proposizioni-limite, il cui significante è chiaro, lineare, paratattico, il significato ambiguo, onirico, interpretabile. La prima e l’ultima proposizione si stagliano strutturalmente con precisione come fossero un cerchio perfetto che perimetra l’epifania del flusso (o la fluttuazione) della parola. «Conosci la struttura delle stelle», inizia. «Le cose devono trovarsi nel vuoto», finisce, per annichilimento, quasi. La conoscenza e il vuoto circoscrivono l’oscillazione del dire.

La forza di queste due proposizioni-limite sta proprio nella loro apparenza di certezza, e la sostanza di ambiguità. Se ci si concentra, per l’appunto, sul conosci incipitario, non è decodificabile se si tratta di un imperativo o un presente indicativo e la filologia non ci aiuta. Florinda Fusco dà un testo in cui la filologia non può aiutarci: volendo, infatti, procedere tramite la convalida del valore morfosemantico a partire dalle occorrenze del testo, non si convaliderebbe nulla. Nella prosa troviamo un guarda, prima, un dici, poi, un altro dici, di nuovo, uno stai pensando, e, infine, un continua. Come un altro cerchio concentrico entro il cerchio maggiore, due imperativi avvolgono altri indicativi. L’analisi delle ricorrenze per confermare l’uso non solo non funziona a livello microtestuale, ma non può funzionare (da sola): dire un vero è dire l’ambiguo, altrimenti si fa didascalia, altrimenti si danno istruzioni. Né didascalia né istruzioni, invece, qui nella supernova antifrastica di Materia osservabile.

Si deve, dunque, tentare, un’altra via. Chiunque legga «Conosci la struttura delle stelle» sentirà l’eco sommerso di «Conosci te stesso». La massima sapienziale arcaica, però, nella sua brachilogia oracolare, possiede una propria chiarezza interna, almeno sintattica. Se il senso compiuto può essere ad uso di qualsiasi significato, sulla morfologia del primo verbo non ci sono dubbi. Il conosci di «conosci te stesso» è un imperativo e ordina o invita un destinatario a rivolgersi come un elastico verso l’interno. Il suo movimento è circolare. Il conosci di Florinda Fusco, invece, percorre un’altra strada: sale, varca la soglia, cerca il suo sistema nell’osservabile a distanza; ha a che fare con la struttura delle stelle, o, meglio, con la struttura «riguardante le stelle», in pratica de sideribus, de-sideri.

Conoscenza e desiderio sono il punto di partenza dal quale il compasso comincia a ruotare per tracciare il suo cerchio, ovvero “riconoscere la struttura”, farne un sistema. Tutto Materia osservabile è intriso di questo desiderio di fare struttura, di dire il mondo e costruire il proprio universo testuale attraverso la sapienza matematica, la serie Fibonacci, la sezione aurea. Nelle note conclusive scrive Fusco: «Se visualizzassimo le parti del libro, ovvero se aprissimo il libro e distribuissimo a terra le pagine sciolte e poi come un puzzle le componessimo geometricamente seguendo i numeri della struttura stessa, si formerebbe davanti ai nostri occhi la spirale aurea». La nota esplicativa, ad ogni modo, non esplica la forma e la sostanza della parola ma la forma (e la sostanza) del libro, in pratica il desiderio di un sistema, di concatenare l’universo sulla pagina. Il desiderio di sistema, però, si fa più urgente nel tempo dell’angoscia, sia che per tempo dell’angoscia si intenda quello individuale sia che ci si riferisca a quello collettivo; l’ossessione di controllo si manifesta quando sfugge il controllo o si teme che fugga. Il primo conosci, dunque, potrebbe essere la rivelazione (desiderativa) dell’angoscia di una assenza, quel movimento umano in cui si conosce e contemporaneamente si desidera, quando, per l’appunto, percezione e appercezione, per dirla con Leibniz, si confondono. La citazione da Leibniz è quasi necessaria: l’esergo di Materia osservabile è tratto da una massima del filosofo che recita «La potenza e la scienza non racchiudono alcuna impossibilità». Il tempo è lo stesso tempo dell’angoscia, il possibile è un’infinità di possibili, il potenziale, ciò che potrebbe essere, ma, qui, soprattutto ciò che si desidera sia.

Quando il compasso ha compiuto la sua rotazione, la prosa conclude con una proposizione, nella struttura, simile a quella di apertura. «Le cose devono trovarsi nel vuoto». La sostanza della frase risiede ancora e sempre nel verbo, nel suo indicativo ambiguo, devono. Da una parte nel sottotesto della frase semplice c’è un auspicio inosservabile né visibilmente presente, per quanto si conosca (o ci si augura che un tu conosca) la struttura delle stelle, che del resto fluttuano nel vuoto, se osservate. Dall’altra parte, invece, devono implica il concetto di necessità.

Dalla “conoscenza o desiderio di conoscenza” passiamo alla “necessità di trovarsi o desiderio di trovarsi” e il denominatore comune, qualunque sia la interpretazione che si voglia dare, ha a che fare con il desiderare.

Che «le cose devono trovarsi nel vuoto», quindi, può essere interpretato seguendo una molteplicità radiale di senso: 1. le cose sono nel vuoto ed è l’unica e incontestabile verità; 2. non riuscendo a vedere quello che c’è, non ci resta che l’auspicio che le cose si trovino nel vuoto; 3. è necessario, per quanto non osservabile, che le cose si trovino nel vuoto.

Siamo, di nuovo, nel campo della ambiguità del desiderio. Tutte le possibili interpretazioni hanno a che fare con l’assenza (il vuoto), ovvero con il desiderio di presenza, perché, come recitava Parmenide, «le cose assenti si fanno più presenti». Il livello del significante dice ciò che è; il livello del significato (anche) ciò che potrebbe essere o non essere. È proprio questa ambiguità che fa delle proposizioni non delle massime sapienziali didascaliche: non si dice il contenuto di verità; piuttosto un contenuto di verità. Il testo di Florinda Fusco contiene una verità, qualunque essa sia, e non è necessario sapere quale. Conoscere, cose, vuoto, devono sono lessemi che afferiscono al campo della terminologia filosofica ma volessero dire la verità ci troveremmo davanti un saggio o dialogo filosofico. Qui, invece, grazie alla ambiguità, filosofia e forma poetica non riprendono a camminare insieme dopo millenni di cesura, ma si sovrappongono lasciando intravedere in trasparenza il desiderio di ricerca sotteso tanto all’una quanto all’altra.

In questa oscillazione tra asserzione e desiderio, tra verità di un verbo indicativo, e soggettività desiderante (delle stelle) dell’ottativo, filosofia e poesia si intersecano inequivocabilmente, facendo dell’equivoco, o dell’equivalenza, la propria sostanza. Una massima certa sarebbe stata regolativa; un desiderio, ad esempio, nel primo Novecento sarebbe stato espresso tramite l’esclamazione o la domanda (entrambe forme perentorie del dubbio, entrambe forme di comando). L’ambiguità semantica, invece, permette ai due sostrati di verità e verità di sovrapporsi non invitando alla scelta tra due opzioni di cui solo una è quella giusta o vera. L’effetto sortito da questo lossia è quello che prova il naufrago, ovvero una sorta di stordimento, uno specifico mal di mare: il lettore o la lettrice fluttua tra i due poli e, fluttuando, non può che perdere gli appigli tanto dell’uno quanto dell’altro versante del senso. Il “limitato” della struttura si incrocia con l’illimitato del significato. La struttura alla quale viene, del resto, rilegata la prima forma di conoscenza del testo è quella relativa alle stelle, sostanze topicamente – e non scientificamente – indiscernibili. Senza appigli, nell’alta marea, bisogna affidarsi alla fluttuazione del e nel discorso.

 

La fluttuazione delle frasi

In Filosofia e poesia, commentando la Repubblica di Platone, Zambrano scrive: «Il mare pare essere l’agente cosmico della distruzione, dell’annientamento lento, accurato, inesorabile di ciò che, massiccio e ossesso, sembra costituisca la natura umana. A questo si oppone il filosofo». Ripercorrendo la cesura tra filosofia e poesia, la filosofa mette in luce che il poeta non solo non si oppone a questa fluttuazione, ma si è imposto il compito di fissarla. Florinda Fusco, tanto in questo brano, quanto nel resto delle sue opere, sembra, per l’appunto, fissare questa fluttuazione, farne il modo chiave del suo pensiero poetante.

Se ci si addentra nell’area del cerchio tracciato dalle proposizioni-soglia messe in luce prima, sembra, per l’appunto, di immergersi in un moto di marea. L’ambiguità dei due verbi iniziale e conclusivo propaga di per sé un senso di “stordimento”, «così come avviene quando si gira senza sosta sempre nello stesso senso e si è in preda a una vertigine tale che può farci svenire e non ci permette di distinguere nulla» (ancora con Leibniz). Dentro il cerchio del brano, d’altra parte, la vertigine e l’indiscernibile non sono di minor effetto: le proposizioni compiute si diradano e le frasi si fanno ellittiche. È come immergersi in una fluttuazione entro la quale una serie di frasi ellittiche si interrompe a un tratto, andando incontro a un muro verbale. Lo stordimento è percepibile. Scorrendo lungo il testo pare di affrontare una corsa che termina con l’urto, e tanto la corsa quanto l’urto diventano strumenti conoscitivi. Basti guardare queste poche righe: «Maglietta di pizzo nero. Reggiseno bianco. Una catena d’oro con tre medagliette: la Sacra Famiglia, S. Giorgio e Cupido. Figura d’interferenza: provare a cancellare il passato». O ancora: «La voce forse. Le voci potenziali. Fluttuazioni possibili parallele. Continua a immaginare». Le proposizioni potrebbero essere rappresentate, fonicamente e sonoramente, secondo lo schema “ellissi, ellissi, ellissi, muro (o verbo)”, o ancora “assenza, assenza, assenza, presenza (sostanza)”. Si tratta di un muro la cui essenza non ostacola il pensiero ma lo fa procedere. È come se il verbo continua e l’infinito provare fossero delle sostanze porose che lasciano spazio ad una qualche forma di apertura e di prosieguo. In questa oscillazione tra corsa e ostacolo forato si fluttua ancora. L’impatto con un solido, per quanto poroso che sia, non può che generare, però, altro stordimento, mal di mare, una sorta di epifania, ovvero una conoscenza cui si giunge per via non deduttiva. Il visto, il percepibile è ellittico, mancante; il rivelato, al contrario, è paradossalmente sostanza piena che si giustifica da sé.

Quanto di più strano in un testo che riprende la scienza per fare poesia. Strano, non fosse per quello che è stato detto: che qui per un momento, incidentale, i saperi si trovano sovrapposti senza che gli uni prevarichino sugli altri.

La società occidentale intrisa di razionalismo e fiducia nei processi ha sempre lavorato per gradi. Il Tutto a un tratto è stato rilegato a pregiudizi mistici o a sottospecie scientifiche. Si prendano queste considerazioni di Šestov in La bilancia di Giobbe: «Cerchiamo con tutte le nostre forze di espellere dalla vita gli improvvisamente, gli un tratto, l’inaspettato […] E giudicheremmo qualsiasi teoria scientifica o filosofica che abbia bandito da sé ogni postulato, irrimediabilmente viziata non appena ci imbatteremmo in un improvvisamente». Maria Zambrano, nei Beati, scrive che la società del logos cerca una giustificazione non appena sorga la visione. L’archetipo della condanna della poesia da parte di Platone è ascrivibile anche a questo: la poesia fa i conti con il tutto a un tratto, con il tragico dell’incidentale. Niente di più indimostrabile, ingiustificabile. La serie paratattica di Florinda Fusco, invece, così con i suoi tutt’a un tratto ci mette davanti ad una conoscenza raggiungibile non per fasi, ma per corsa e inciampi improvvisi. Accelerazioni e brusche frenate. Sistema e angoscia del sistema, mancanza e presenza.

 

Il suono della fine

Si manca di un sistema, quindi si fa sistema. In questo testo il sistema della fluttuazione fa sì che si verifichi il tutto a un tratto, l’oscillazione di ellissi e mura e, nel frattempo, quando si accade nella sostanza, le stelle fanno un pigolio. Tutto il brano è, però, non soltanto creazione di un sistema dell’assenza. Nel micromondo di Materia osservabile un soggetto senziente percepisce il mondo esterno, lo descrive e, in una armonia di specchi, lo riflette all’interno di se stessa (questo momento è inevitabile per passare dall’osservazione alla scrittura), contaminando il sé con il visto, il visto con il sé. Spiegare in termini matematici l’universo, tuttavia, fa paura e si incorre nel rischio del rogo: un rogo personale, quanto meno nell’odierno, invisibile, estenuante, e logorante.

D’altra parte la ricerca di un sistema libera la parola creatrice in qualcosa che solo per creazione può nascere e solo per annientamento finire. Si tratta di una struttura armonica, musicale, controllata che può tutt’a un tratto crollare. Se togliamo un numero a Materia osservabile crolla l’universo e noi veniamo catapultati nel non-essere. Non è un rischio da non correre. Non si tratta di controllare il tutto per sostenerlo, ma per fissare la possibilità, sempre dietro l’angolo, del Verfall, il disfacimento. Disfacimento che, d’altra parte, è già accaduto per mezzo dell’organizzazione testuale paratattica. Sistema «la cui spigolosità paratattica fa sì che la configurazione dell’unità venga trasformata in modo tale che non soltanto ne brilli il molteplice che è in essa ma l’unità stessa denuncia di sapersi non conclusiva» (Th. Adorno, Paratassi. Sulla poesia di Hölderlin). E se pure dovesse concludersi, potremmo, da spettatori e spettatrici, fissare nel concetto la sua deflagrazione, come un nuovo big bang improvviso, mentre siamo in uno stato di stordimento, di visione non giustificata, e dopo tutto il suono della fine.

(Luciano Mazziotta)

 

 

 

* Di Florinda Fusco Argolibri ha pubblicato nel 2022 la raccolta Il compleanno e altre opere, acquistabile qui