U grascià ⥀ Il romanzo della crudeltà #1

Pubblichiamo qui il primo racconto nato nel corso del laboratorio di scrittura narrativa Il romanzo della crudeltà, tenuto da Valerio Cuccaroni alla libreria Catap di Macerata: U grascià di Virgilio Gobbi, con un’illustrazione di Luca Cingolani

 

A gennaio scorso è iniziato il laboratorio Il romanzo della crudeltà, da me condotto alla libreria antiquaria Catap di Macerata.
Pubblico una prosa di Virgilio Gobbi, frutto del primo esperimento. Durante l’incontro di presentazione ho illustrato il motivo per cui è nato il laboratorio: raccontare lo schifo, il marciume, il sordido da cui abitualmente spuntano i fiori del male e da cui è sbocciato, da queste parti, Luca Traini, che nel 2018 sparò a persone innocenti solo perché avevano la pelle scura, diventando l’eroe della massa di razzisti che ha portato alla vittoria dell’estrema destra prima a Macerata, poi nelle Marche, infine in Italia.
È lo stesso processo che è alla base del sublime d’en bas di cui parlava Flaubert a proposito dell’adultera Madame Bovary. Tenendo a mente questo principio, si doveva scrivere un breve racconto su ciò che procura schifo.

(Valerio Cuccaroni)



U grascià

 

Fin dalla più tenera età c’è sempre stato un luogo, un po’ nascosto e quasi dimenticato, subito dietro la casa dei nonni, che attirava l’interesse di noi giovani esploratori della natura e delle campagne. Questo luogo era “u grascià”, montagna di merda misto paglia, adornata di nauseabondi pezzi di corpi animali in macerazione, piume sparse, mosche a sciami, vermi e schifose pellicce di conigli scuoiati.
“U grascià” emetteva un odore forte, che ti entrava nelle narici e sentivi fin dentro i polmoni; dentro di noi eravamo sempre in bilico tra il desiderio curioso di esplorarlo più da vicino, toccarlo, sentirne la consistenza, scavarlo per vedere cosa nascondeva dentro, e la repulsione data dai vapori che emetteva, specie d’estate, dove il sole a quaranta gradi, che picchiava in testa, accellerava il ribollire di quella marmaglia merdosa, che emetteva svampi di tanfo, e ti portava vicino al cagnolo1. Lo schifo lo sentivi dentro, fino nell’anima, ma questo non faceva sì che noi, curiosi della vita e delle sue possibilità, non trovassimo tutto ciò molto interessante.
“U grascià” era una specie di luogo di culto del ripugnante, a cui portavamo un certo rispetto. Ogni tanto tiravamo un sasso o un bastone, per vedere se ci fosse, da parte sua, qualche reazione. Niente, “u grascià” continuava passivo la sua opera di annichilimento del vivente, trasformando anche i più vivaci e allegri animali della fattoria, in una terra scura e senza vita.

 

1 Nel dialetto anconetano conato di vomito. Stando alle memorie locali, esisteva un quaderno, preparato da alcuni medici alle prime armi ai tempi dell’Ospedale Umberto I, nel centro di Ancona, in largo Cappelli, contenente un vocabolario anconetano-italiano per tradurre in lingua espressioni dell’idioma locale, altrimenti incomprensibili (N.d.R.).

 

 

 


Illustrazione di Luca Cingolani.