Un romanzo-installazione: I fratelli Michelangelo di Vanni Santoni
Dopo diverse prove minori e di genere, capaci di portarlo già a trent’anni, grazie al primo romanzo, Gli interessi in comune (Feltrinelli), nell’empireo dei grandi editori, giunto alla maturità il quarantenne Vanni Santoni gioca la carta del Grande Romanzo, il romanzo borghese, con tanto di storia familiare che attraversa la Storia. Con le sue 600 pagine + Epiloghi I fratelli Michelangelo (Mondadori, 2019) si presenta grande già nelle dimensioni. Il titolo poi riecheggia i più celebri fratelli della letteratura mondiale, I fratelli Karamazov, che, in uno dei passaggi metaletterari del romanzo, troviamo in effetti citati in modo esplicito. Nel susseguirsi, anzi nel giustapporsi delle storie dei vari fratelli eponimi, altrettante pale di un polittico, posto dall’autore sull’altare della letteratura, una delle protagoniste, Cristiana, a un certo punto ha una rivelazione, anzi ha la rivelazione delle rivelazioni. Rivela, infatti, la genesi del romanzo stesso, concepito non come un romanzo-romanzo ma come un romanzo-installazione. Prendi quattro fratelli, «uno che non ho mai visto, uno che non sapevo di avere, un padre fuori di testa che ne ha architettata una delle sue, per di più in una location bizzarra» e il gioco è fatto: «ve lo faccio vedere io un padre unico», esclama Cristiana al culmine dell’esaltazione (p. 429). Anche il titolo vien da sé: «la Famiglia Michelangelo. Oppure meglio I fratelli Michelangelo tipo Dostoevskij? O Walser» (ivi). Ecco dunque svelata la genesi del romanzo-installazione, in cui i quattro fratelli, in effetti, sono sistemati da Santoni in altrettanti parti-pannelli. Il padre aleggia, ricco (presunto) e famoso (un tempo), sopra di loro.
Piuttosto che in preda al complesso di Telemaco, inventato da Massimo Recalcati, sul modello dei più noti complessi di Epido ed Elettra, per indicare la condizione filiale nella contemporaneità rispetto alla scomparsa del padre, i fratelli Michelangelo sono alla ricerca del gesto di Ettore, per citare un altro saggio psicoanalitico ma più seminale, scritto da Luigi Zoja. Tuttavia, al contrario di Ettore, che sollevò al cielo il proprio figlio, riconoscendo in quel gesto lui e se stesso, il padre unico che cercano i fratelli Michelangelo, come i padri contemporanei analizzati da Zoja, non alzò al cielo i propri figli, anzi un paio furono abbandonati in fasce e gli altri due alla fine dell’adolescenza. Lo stesso finale potrebbe essere considerato un rovesciamento del gesto di Ettore. Sulla scorta della tesi di Zoja, il romanzo di Santoni ci conferma che il padre è scomparso dall’orizzonte contemporaneo, facendo riemergere l’orda dei fratelli e spingendoli a regredire nel selvaggio e nel competitivo, favoriti dall’aggressività della nuova economia. Così avviene per Enrico, attratto dal sadismo di Sade e Apollinaire, mentre accumula frustrazioni nel lavoro; per Louis, inghiottito dalla spirale della criminalità, mentre accumula insuccessi negli affari; per Cristiana, che si abbandona all’alcol per anestetizzare l’ansia da prestazione, mentre accumula rifiuti dal mercato dell’arte; per Rudra, che si abbandona all’agonismo, ai pestaggi e alla natura selvaggia, mentre accumula scarsi risultati a scuola e lavoretti precari.
Al culmine della regressione, dopo essersi arrovellata per trovare l’opera giusta che la facesse sfondare nel mondo dell’arte, iper-competitivo, ed essersi concessa sessualmente a un uomo più anziano, che potrebbe essere il padre, nel momento della noesi, a lungo invocata, Cristiana comprende, neo-fanciullina, che «lo straordinario è arrivato nella mia vita, anzi c’è sempre stato e ora si sublima» (p. 429): una famiglia sui generis da filmare, in una «location bizzarra». È la spettacolarizzazione del romanzo borghese, diventato parodia di se stesso.
Restando sul piano letterario, filologico, I fratelli Michelangelo potrebbe essere considerato un palinsesto del Grande Romanzo: nella prima parte, tramite il pirandelliano fu Enrico Romanelli, il più giovane dei quattro fratelli, che non aveva mai conosciuto il padre, Santoni fa intravedere, citando Balzac, Flaubert, Dostoevskij, Sade, Mann, Apollinaire, Céline, i manoscritti su cui ha inciso il suo romanzo. Poi li cancella nella seconda parte con una storia alla Bret Easton Ellis, aggiornata all’epoca della seconda globalizzazione, con storie di soldi, droga e violenza, in cui è invischiato, tra India e Indonesia, Louis, l’altro dei fratelli che ha conosciuto il padre solo una volta diventato adulto. Nella terza parte, dedicata a Cristiana, cresciuta con il mito del padre in casa, il palinsesto viene raschiato di nuovo e riemergono i classici, ma convertiti al verbo multimediale, ormai divenuti plot per una videoinstallazione. La violenza riemerge nella quarta parte, dedicata a Rudra, cresciuto anche lui in casa con il padre ma da lui non compreso. La storia di Rudra si lega più all’immaginario dei videogiochi (in particolare Street Fighter II della Capcom) che a quello dei romanzi, sebbene Santoni riconduca un episodio infantile del personaggio a Annientamento di Jeff VanderMeer. Rudra è l’incarnazione del selvaggio e del competitivo, la verità autoevidente ma incosciente.
I fratelli Michelangelo si chiude con una combinazione di violenze prodotta dall’orda, tuttavia non tragica ma comica, a dimostrazione che una vena parodica percorre tutto il romanzo. Nel momento in cui la sublimazione, però, è la telecomunicazione, il palinsesto, come avviene per i programmi radiofonici e televisivi, diventa un prospetto schematizzato, che mette in fila le caratteristiche tecniche dei singoli personaggi e le indicazioni delle ore e dei minuti a essi riservati, predisposto per un determinato periodo di tempo: il tempo della messa in scena nella «location bizzarra». I fratelli Michelangelo, in questo caso, sarà un palinsesto anche perché la lettura non è molto perspicua, data la dilatazione tra tempo della storia (breve: 48 ore) e tempo del racconto (lungo: anni), ma soprattutto perché, come Gli sposi promessi, per diventare davvero un grande romanzo, capace di resistere al tempo, I fratelli Michelangelo dovranno assoggettarsi ancora a correzioni e rimaneggiamenti, diventando palinsesto di se stessi.

Valerio Cuccaroni
Dottore di ricerca in Italianistica all’Università di Bologna e Paris IV Sorbonne, Valerio Cuccaroni è docente di lettere e giornalista. Collabora con «Le Monde Diplomatique - il manifesto», «Poesia», «Il Resto del Carlino» e «Prisma. Economia società lavoro». È tra i fondatori di «Argo». Ha curato i volumi “La parola che cura. Laboratori di scrittura in contesti di disagio” (ed. Mediateca delle Marche, 2007), “L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto e altre lingue minoritarie tra Novecento e Duemila” (con M. Cohen, G. Nava, R. Renzi, C. Sinicco, ed. Gwynplaine, coll. Argo, 2014) e Guido Guglielmi, “Critica del nonostante” (ed. Pendragon, 2016). Ha pubblicato il libro “L’arcatana. Viaggio nelle Marche creative under 35” e tradotto “Che cos’è il Terzo Stato?” di Emmanuel Joseph Sieyès, entrambi per le edizioni Gwynplaine. Dopo anni di esperimenti e collaborazioni a volumi collettivi, ha pubblicato il suo primo libro di poesie, “Lucida tela” (ed. Transeuropa, 2022). È direttore artistico del poesia festival “La Punta della Lingua”, organizzato da Nie Wiem aps, casa editrice di Argo e impresa creativa senza scopo di lucro, di cui è tra i fondatori, insieme a Natalia Paci e Flavio Raccichini.
(Foto di Dino Ignani)