Una cosa ridicola di Giacomo Vaccarella ⥀ Passaggi

Presentiamo oggi su Passaggi il racconto Una cosa ridicola di Giacomo Vaccarella, con un’illustrazione di Stefano Sartori. L’editoriale della rubrica può essere letto qui

Illustrazione in copertina di Stefano Sartori.

 



 

Da lì il marciapiede proseguiva freddamente, dritto e immobile come era lui, e poi spariva in un piccolo scalino, un leggero salto di pochi centimetri, quasi impercettibile, che la gente eseguiva sovrappensiero, molleggiando con il corpo e tuffandosi sulla strada. Era un passaggio che le gambe ormai svolgevano involontariamente: scendere il marciapiede e salire la strada, salire il marciapiede e scendere in strada. Nessuno ci faceva caso e scavalcavano lo scalino incuranti. Anche lui non prestava mai attenzione al marciapiede, sapeva solo che era sotto i suoi piedi, a sostenerlo, e ora era inciampato proprio nel momento in cui doveva eseguire il piccolo salto, quel salto che aveva fatto ogni mattina uscendo dall’Hotel e ogni sera tornandoci, ed era caduto.
Era sdraiato a terra tra la Settima e la Diciassettesima, da quella posizione il cemento del marciapiede era puntinato di minuscoli sassolini, come un cielo stellato su uno sfondo profondo, e vicino c’era della carta che qualcuno aveva usato per pulirsi, ormai coperta di fango. In cima ad un cumulo di neve brillava un orecchino, del tipo da attaccare al lobo senza bisogno del buco, a clip, che doveva aver perso una bambina ansiosa della vita adulta. Era imbarazzato a guardare le cose da così vicino, perché fino ad ora era sempre riuscito a mantenere un atteggiamento di distacco e la caduta feriva la seria indifferenza che aveva esercitato tutta la vita  per evitare distrazioni.
Non riusciva ad alzarsi, ma almeno voleva provare a spostarsi poco più in là, in modo che il suo corpo non intralciasse il passaggio all’entrata dell’Hotel, ma appena provò a piegare i gomiti la giacca aveva già cominciato a stringersi intorno al collo e la zip a pizzicargli la pelle. Lasciò perdere.
L’aria calda delle macchine spostava leggermente i suoi capelli bianchi. Si chiedeva se qualcuno lo avesse visto cadere e fermarsi in quella posizione ridicola, perché era successo proprio davanti all’entrata dell’Hotel, dove aveva affittato l’appartamento al Cinquantesimo. Gli costava una fortuna quell’appartamento, pensò, come gli costava il nuovo ufficio a Soho, le cene, i pranzi con i clienti, e in quell’anno in cui si era trasferito a New York, la Società non aveva ancora fatturato nulla. Le scarpe della gente, o blu o marroni o nere o grigie, gli danzavano davanti, indecise su come sorpassare il suo corpo, e gli parve strano notare che l’esistenza si svolgesse prevalentemente su due piedi. Lui non sapeva quanto fosse ancora capace di sopportare un’insicurezza simile, era stanco, di una stanchezza profonda, e avrebbe dovuto capirlo la notte dell’uragano, quando era sceso nella Hall e fuori batteva una pioggia intensa, che forse aveva esagerato a ricominciare da capo in una nuova città.
Sul marciapiede un rivolo di sangue seguiva le venature dell’asfalto. Davanti a sé vide fermarsi le punte rotonde di due grosse scarpe da ginnastica e capì che erano arrivati. Atterrò sul marciapiede un ginocchio e qualcuno da sopra lo chiamava, «Do you hear me? Sir, do you hear me?» Lo sentiva benissimo ma non rispondeva. Ora gli sarebbe piaciuto rimanere sdraiato sul marciapiede tra la Settima e la Diciassettesima e continuare a sentire il piccolo respiro di una città che ancora non riusciva a contenere nel pensiero.
Lo afferrarono ai lati e lo girarono sulla schiena. Sopra di lui capì quanto era alto il grattacielo dell’Hotel e ricordò come la notte dell’uragano era sceso a piedi dal cinquantesimo piano, senza cadere, mentre il grattacielo dondolava da una parte all’altra come un bambino dolcemente cullato, e ora che lo sdraiavano sopra la barella, anche lui era tornato un bambino nella culla e pensò che era stata proprio una cosa ridicola inciampare davanti al suo Hotel.

 

 

 


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Giacomo Vaccarella
Immagine di Stefano Sartori.