Undici per meno uno di Bianca Cavallotti ⥀ Passaggi
La redazione di Argo va in vacanza e vi augura buona estate con un’ultima pubblicazione della rubrica Passaggi, la prosa Undici per meno uno di Bianca Cavallotti illustrata da Silvia Mengoni. L’editoriale della rubrica può essere letto qui
Illustrazione in copertina di Silvia Mengoni, Senza titolo, 2023.
Undici per meno uno
Nella vostra cubica notte senza tristezza dormite sempre undici sonni; senza accorgervi di nulla, senza tremare o fremere di gioia improvvisa. Io vi guardo ogni tanto, anche se la mia concentrazione è prevalentemente riservata al soffitto. I miei occhi, che fino ad un momento prima che vi addormentaste erano appesi lì sopra, impegnati a vegliare sul nostro groviglio di mani pelli esauste, si sorprendono a ruotare di 90 gradi verso sinistra, curiosi di osservare quella quiete così vegetale. E vi sommo, vi condenso tutti in un’unica massa di pelle e sangue, e germi, tutti i germi che il creatore nascosto può sprigionare in quegli attimi di grida e muscoli.
Siete così limpidi. E forti. E magri. Siamo così vicini che quasi temo di assorbire le vostre petulanze incoscienti (beato chi riesce a non ascoltarsi la notte!)
Vorrei vedervi ancora più magri, privi di ogni granulo di sale, di latte e di miele, ridotti ad ossa e fiato. Conserverei le vostre guance: con il loro pallore alabastrino mi commuovono e mi rassicurano. Se venissi improvvisamente recuperata da un palmo caldo e paterno e posta fuori dalla stanza, mi ritroverei irrimediabilmente disarmata, senza braccia, senza grasso per scaldare me e voi.
Il mio inguine, insicuro fino alla sua parete-pianura pelvica, si staglia luminoso nella nebbia della vostra camera ardente, come fosse una colomba che trasporta messaggi di pace ignara del fatto che sta viaggiando verso un forno di braccia grosse, cedevoli di fatica e pasta ancora cruda. Vi è un momento rarefatto in cui si incontrano, la mia colomba migratrice e le vostre guance di putto. Ma si tratta di un momento triste, che finisce prima di iniziare, che si rivela sempre e solo nella nostalgia dilatata dei momenti successivi. Così sento crescere in me un senso tenero, fra i più nubilosi che si possano avvertire nell’impero dei sensi: non contiene proiezioni malleabili, non mi offre possibilità di prevederlo perché è lui che mi precede, che veglia su di me. Io non vedo che moli di ombre mute, circondate da avvoltoi che mi spiano nascosti sotto i miei piedi, pronti ad ingoiare il cipresso che credono li stia soffocando, e che invece sono io. Io cieca, io simulacro e scialbatura del sogno, dell’angelo che vi pare di incontrare sotto quelle tettoie umide e confortevoli, che non dicono nulla della mia urgenza ma soltanto della vostra. Non posso che scusarmi di fronte a questa plastica. Padre, perdonami. Ti penso spesso e ti vorrei più soffice e meno cauto.
(Perché non mi contengo? E nemmeno lui, questo corpo appena maturo, mi contiene, non si fa abitare, non mi riconosce. Per questo, per compensare e riempire qualche cosa che sia vivo di sangue, devo intromettermi tutta, senza sospensione alcuna, nelle ginocchia sudate di coloro che pretendo di studiare; e lo faccio con tutto l’orgoglio aristocratico di chi sbriciolava occhi di pasta frolla sulla carta sottile di quotidiani ancora intatti, lucidi, pieni di verbi bulimici che ti spiegano il mondo. E tutto questo racchiuso fra due braccia gonfie, piene di latte, come calorifero inzuccherato, come recinto di glassa che protegge e tace, tace sui pianti del marito, non suo ma della padrona, e piange anch’ella con vergogna e chiusura automatica nell’antica credenza, che sia popolare o contenitore questo lascio a voi decidere.)
Undici per meno due
Questa volta sono stata più attenta: ho risalito le tue scale di legno piano, per farti sentire tutto lo scricchiolio che un passo prudente può emanare. Ti sei ritirato presto per farti trovare esangue al lato del letto, tutto chiuso nelle tue ossa e nella tua recita. Mi hai lasciato il tempo di guardare per l’ultima volta la mia sagoma, che, ancora secca, mi ha presa per mano. E gira di 90 gradi verso il patibolo! Avanti Domna, non fingere un’esitazione, nessuno ad Emesa ti ha mai vista così titubante. Precipitati da lui con i seni ingrossati, tanto è già morto.
Un primo gradino e subito cric! Ti sei già perdonata, è stato semplice, ora tutte le gocce di dubbio che bagnavano la fronte si sono ritirate al sud; il tuo corpo si sa regolare da solo; è sorprendente.
Un secondo gradino e intravedo, fra gli spazi vuoti delle assi di legno, una boccetta di farmacia che tenta di nascondersi fra pagine abbandonate e panni sporchi. Ma mi scoccio a dover interpretare per la milleduesima volta il lenzuolo di simboli che usi per proteggerti. Sei ripetitivo.
Alzo il capo e ti trovo raccolto in un mucchio di ossa che sembrano essersi disposte in posizione fetale. Non mi resta che venire a consolarti. Il filo che collega il tuo sterno al mio vaso si contrae e mi costringe ad abbassarmi prima di raggiungerti: ho bisogno che tu non mi veda del tutto.
Chi volesse proporre prose brevi e illustrazioni per la rubrica, può inviarle a questo indirizzo email: RubricaPassaggi@argonline.it
Bianca Cavallotti
Bianca Cavallotti. Nata a Parma nel 2004, studia a Roma presso la facoltà di Lettere e Filosofia di Università La Sapienza, e approfondisce la ricerca e la pratica delle discipline teatrali in diversi centri di studio della materia.
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