«L’uomo è un errore» ⥀ Approdo alla poesia in lingua di Francesco Gabellini

Francesco Gabellini, dopo anni dedicati alla poesia dialettale, approda ora alla poesia in lingua. Rossella Renzi ne presenta oggi su Argo alcuni testi inediti, accompagnati da un’illustrazione di Elisa Francioli

 


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Francesco Gabellini, riccionese classe 1962, si è dedicato negli anni alla poesia dialettale, realizzando diverse opere di rilievo: ha pubblicato cinque raccolte, di cui l’ultima, Nivère, per Raffaelli nel 2021, ed è presente nell’antologia L’Italia a pezzi, con una preziosa nota di Manuel Cohen. Una voce tenue, consolidata nel tempo, che sa accarezzare e mettere in relazione i ricordi intimi, l’infanzia, il generoso mistero della natura.

Ma la poesia, fortunatamente, non suole barricarsi entro confini linguistici: dipende da come sgorga il verso in quella precisa stagione creativa, da come prende forma la parola sulla pagina in quella disposizione dell’ora e del giorno.

Ed ecco che nelle ultime prove il poeta romagnolo forgia testi in lingua italiana, versi che aprono forse una stagione nuova o perlomeno insolita per la sua officina. Con la scelta di una lingua diversa muta lo sguardo, il sentire, la presa diretta sulle cose. Pur rimanendo nel solco della «preferenza per gli oggetti minimi, le povere cose di poco conto, magari un sottomondo sussidiario di piccoli temi» – come scrive Serrao nella prefazione a Caléndre (2008) –, nei testi inediti qui proposti, Gabellini assume un tono più crudo e disincantato. L’elemento umano, le atmosfere, il dato quotidiano restano il centro della sua attenzione, ma lo sguardo si fa più tagliente, più accorto, attento a scrutare ogni passaggio di anima, dettaglio di vita al margine della luce, colta nei luoghi ambigui, sviliti, carichi di una tristezza struggente o di desolante abbandono.

Tra visioni nostalgiche e la constatazione della solitudine, la ricerca di senso e la presa di coscienza sullo stato corrotto, impoverito delle cose, il poeta prende atto e registra. Lo fa con la sua lingua nuova, nuda e cruda, per raccontare l’inciampo, lo sbaglio enorme che può essere la vita, quando leggiamo una scritta sul muro che cita «L’uomo è un errore».

(Rossella Renzi)

 

 

Finis Terrae

Quando si passava dal cancello girevole
riservato al personale dell’autogrill,
era ancora notte, l’erba era pallida
e si faceva a gara chi pisciava più lontano.
Si andava per comprare sigarette
e si beveva un’ultima birra.
Si faceva la conta degli amori rubati quella notte.
Qualcuno esibiva un paio di mutandine, come un trofeo.
Era l’ora in cui la bestia si confonde con l’umano.
Si scambiavano battute con i cacciatori già svegli.
C’era una specie di torneo: le italiane valevano due punti,
le straniere solo uno, le bresciane, a causa della loro fama,
d’essere di facili costumi,
erano fuori concorso, non ti facevano salire in classifica.
I cacciatori chiedevano particolari piccanti,
a volte si avvicinava anche qualche autista di tir,
annusavano le mutandine, «roba di classe!», dicevano,
le facevano annusare anche ai cani.
In fondo le auto passavano veloci, puntando dritto avanti a sé.
Dove andavano? Quali ansie e dolori trasportavano?
Quali gioie? O amori, forse, appena nati e che
già apparivano così grandi da non poter essere contenuti nell’abitacolo.
Intanto, sorgeva la prima luce dell’alba.
I lampioni gialli del grande parcheggio dei tir,
che avevano tentato di dare un’aura di mistero
alla notte, si spegnevano.
Quando non passava nessuno sull’autostrada
si poteva sentire, laggiù, in lontananza, come un disco incantato,
il ritmo monotono delle onde.
Tutto questo è successo prima
che mettessero il lucchetto al cancello girevole
riservato al personale dell’autogrill.

 

 

Gli onnivori

L’uomo mangia tutto.
Estrae piante e funghi e li mangia.
Costringe gli uccelli a scendere dal cielo
e i pesci a uscire dal mare, e se li mangia.
Indossa sahariane chiare di lino e foulard di seta
che poi si mangerà, l’uomo mangia strade e case.
Conduce altri uomini in cima alla montagna
per vedere lontano e insieme si mangiano il paesaggio.
L’uomo divora interi boschi,
nemmeno le suppellettili sui mobili di casa si salveranno.
L’uomo ha ritagliato sagome di cartone
con le quali costruire un pubblico per i suoi teatri,
il silenzio nelle biblioteche è violato
dal rumore martellante delle mandibole.
L’uomo si mangia le parole.
I ristoranti sono le nuove cattedrali.
La domenica l’uomo si mangia i suoi figli
e nell’ultima ora del giorno, l’uomo mangia anche sé stesso.

 

 

Solitudini urbane

La ragazza che lavora alla fabbrica delle scarpe
passa davanti alla scuola, ed è mattina presto.
Le luci al led corrono sul tabellone
come bambini che attraversano la strada
e vanno a formare uno schieramento in quello slogan:
“Non sei da sola, non sei la sola”.

Di sera, al ritorno, la strada è deserta,
solo i led insistono nella loro corsa luminosa.
A ogni lampione l’ombra la supera silenziosa
e sembra ci sia un’altra ombra dentro la sua ombra
un altro respiro d’affanno dentro al suo giovane respiro.

I rari passanti sono esseri trasparenti e luminosi degli abissi.
Tutte le sere quel cane che ringhia da dietro le sbarre
la fa sobbalzare, il suo lungo ansimare la segue,
rimbalza contro i muri dei caseggiati bassi.
Ripete ad alta voce quel numero, di sole quattro cifre
così facile da ricordare. Si ferma sul marciapiede,
guarda il cielo, ma non vede niente.

 

 

Voci nella città

Era la stagione romantica dei raffreddori
già da qualche giorno ne soffriva dolcemente,
si svegliava nel mezzo della notte
e sembrava che l’aria finisse lì
come una strada senza uscita.
Il suo respiro era diventato un rantolo.
A volte il suono pareva riempirsi di senso.
Finché si svegliò una notte
e gli sembrava di avere dentro la voce di un bambino.
Il bambino chiamava sua madre.
La voce era implorante, intrisa di pianto. Era lui?

Altrove, quando venne il suo turno
il numero apparve sul display
e si trovò di fronte all’impiegato che chiedeva.
Ancora una volta, apparteneva a lui quella voce
che disse: «abbandono tutto,
rinuncio a tutto ciò che sono stato»?
«E io come posso aiutarla, signore?»
Fu la risposta del giovane impiegato.
Sorrideva, era contento della nuova occupazione,
un lavoro, finalmente, a tempo indeterminato.

 

 

9 gennaio 2023

in memoria di Charles Simic

 

Questa notte galleggia sull’assenza di idee,
tutto il mondo là fuori è un vuoto deserto
e io una nave gialla, legata a una canna del fiume,
persa nel mare calmo della nebbia.

Ma come ogni cosa è veramente se stessa
sottratta al nostro sguardo.
Io guardo dalla finestra e non vedo niente.
Non vedo il pavimento del terrazzo dei vicini
diventare una scacchiera e la donna-torre
che ora, finalmente, può muovere in ogni direzione.
Non vedo il vento che corre
ad allacciare le scarpe ai bambini
che ancora non hanno imparato.

Voglio essere l’ultima foglia legata all’inverno,
il vetro della vetrina che riflette tutto questo
in assenza totale di pensiero.

Vicino all’ancora in ricordo dei caduti del mare
c’è la ruota di una bicicletta legata a un lampione,
c’è un sasso rivestito di muschio,
una vecchia lattina di Coca Cola arrugginita
che nessuno prende più a calci.
Tutti oggetti restii a svelare
il loro segreto alla notte.

 

 

Epifanie

I pannelli di polistirolo della Kallax
che avevi conservato sul terrazzo
perché possono poi sempre servire,
complice il forte vento di libeccio, questa notte
si sono sbriciolati tutti
ed è nevicato per ore giù in strada,
non previsto da nessuna stazione meteo,
essendo questo un vento caldo, proveniente dalla Libia,
trasformando questo angolo di periferia
in un presepe agonizzante di figure
stracci luminosi e cenere, sguardi sfuggenti.
C’era il ragazzo con il motorino che scippa la vecchietta
e l’alcolizzato che sua sorella costringe a vivere in garage,
un uomo di cui nessuno vuole più sapere niente.
C’è una giovane madre che si guarda intorno
e abbandona il suo segreto vicino a un cassonetto
e due preadolescenti che soffocano il sapore del latte
che hanno ancora in bocca, con una birra,
nessuno che porti oro, oppure incenso
e men che mai la mirra.

 

 

Scusate il disturbo

Al funerale del mendicante c’era solo il suo cane
e una guardia municipale. Tutte le spese
erano a carico del comune. Ci sarebbe stato da chiedersi
come l’animale avesse fatto ad arrivare fino a lì
dopo aver vagato per la città senza più alcun punto di riferimento.
I pini avevano spaccato l’asfalto del marciapiede con le loro radici

a volte succede anche a noi.
Un lavapiatti nero come la notte è uscito dal ristorante di sushi
con un coltello in mano, il cane è scappato.
La maestra in pensione portava i suoi bambini in escursione
per riconoscere le erbe spontanee che crescono anche in città.

Iniziava a nevicare, ma c’era il sole e i bambini ormai
non c’erano più, erano diventati grandi.
Qualcuno a incontrarla ancora la riconosceva
lei no, lei non riconosceva nessuno.
Questa strada è chiusa ormai da molti anni
la galleria è solo un buco nero sul fianco della collina.
Un giorno è uscito un uomo in bicicletta da lì

chissà da dove veniva, se era solo questione di spazio
o c’entrava qualcosa anche il tempo.
Il mendicante dormiva in un’alcova di cartoni e vecchie coperte
di fronte alle vetrine dell’emporio
dove puoi investire buona parte del tuo stipendio per un paio di mutande.

Viene da chiedersi come sarebbe stata la terra oggi, senza di noi.
Qualcuno ha scritto con la vernice rossa sul muro di recinzione
del cimitero: “L’uomo è un errore”.
Adesso la messa è finita, il cane vaga
da solo, per la città senza fine.

 


Gabellini
Elisa Francioli, Pardo.