Venezia 79 ⥀ Titoli di coda

Si conclude la settantanovesima Mostra d’arte cinematografica di Venezia: premi a Laura Poitras, KD Davison, Alice Diop, Jafar Panahi

 

Si è appena conclusa la settantanovesima edizione del Festival del cinema di Venezia e nella cerimonia di chiusura a sorpresa il Leone d’oro è stato vinto dal documentario di Laura Poitras All the beauty and the bloodshed. Già nella conferenza stampa di presentazione la regista aveva ringraziato il Festival per «aver riconosciuto che il documentario è cinema», inserendo il suo lavoro nella selezione ufficiale, ma la vittoria vale molto di più. Di fatto si tratta del secondo caso in cui un documentario vince la Mostra, dopo Sacro Gra di Gianfranco Rosi nove anni fa.

 

 

La scelta di questo film come vincitore è molto politica a partire dall’argomento trattato. All the beauty and the bloodshed indaga la vita di Nan Goldin e la sua battaglia contro big pharma: la fotografa, alla testa del gruppo di attivisti PAIN (Prescription Addiction Intervention Now) ha protestato in molti musei per far loro prendere le distanze dalle donazioni della famiglia Sackler, tra le responsabili dell’epidemia degli oppioidi negli Usa all’inizio degli anni 2000. La vicenda è illustrata attraverso una struttura binaria, alternando la sua giovinezza e le sue più recenti battaglie politiche. Dalle fotografie selezionate per il lungometraggio emerge come l’artista abbia sempre posto l’attenzione su temi divisivi e di rilevanza sociale, anche prima di organizzarsi con un gruppo di attivisti vero e proprio. Laura Poitras ha intervistato la fotografa per oltre un anno e ha registrato tutte le loro conversazioni, per poi utilizzarle come chiave della narrazione, accanto alle sue fotografie. Invece di nascondersi dietro l’immagine dell’artista, il documentario fa l’esatto opposto: indaga le esperienze private, talvolta molto dolorose, della vita di Nan e suggerisce i motivi che stanno dietro alle battaglie politiche.

 

 

La vittoria di All the beauty and the bloodshed contribuisce anche alla continuazione di un primato singolare: per il terzo anno consecutivo una regista vince il Leone d’oro, dopo Chloè Zhao e Audrey Diwan. Questo dato mostra un crescente interesse del settore anche nei confronti del lavoro di registe donne, soprattutto se si pensa che nelle 77 edizioni precedenti erano riuscite a vincere solo in quattro. Quattro sono invece i premi vinti quest’anno da registe di comune formazione documentaristica. Oltre alla Poitras, KD Davison ha ricevuto il Premio per la sezione Venezia Classici, mentre altri due leoni, uno per la migliore opera prima e l’altro come Gran premio della giuria, sono stati vinti da Alice Diop, alla Mostra con il suo primo lavoro di finzione, Saint-Omer. Diop ha sottolineato il valore politico della sua vittoria, dicendo che il premio è la prova che il cuore di una donna di colore può raggiungere l’universale e di conseguenza dare fiducia a una nuova generazione di registe. Non si tratta solamente di aver premiato una regista donna di colore, ma, come aveva dichiarato la regista in precedenza, di dare rilievo alle due donne di colore protagoniste del film, che sono state rappresentate in tutta la loro ambiguità, in un processo che ha fatto la storia in Francia, ma che nella pellicola non era alla ricerca della verità, bensì del confronto con domande esistenziali problematiche.

 

 

Politico è anche il Premio Speciale della Giuria, assegnato a Jafar Panahi per No Bears– Gli orsi non esistono. Il regista iraniano (già vincitore a Venezia nel 2000 con Il cerchio) al momento della premiazione si trovava nelle carceri di Teheran. Panahi è stato condannato a sei anni di reclusione per “propaganda antigovernativa” dopo aver espresso solidarietà ai propri colleghi Mohammad Rasoulof e Mostafa Aleahmad. Intrecciando realtà e finzione la sua pellicola racconta le vicende di un regista avverso al regime che cerca di lavorare da remoto, dopo aver preso alloggio in un paesino sul confine con la Turchia. Già durante la prima del film una protesta guidata dalla presidente di giuria Julianne Moore e dal direttore artistico Alberto Barbera aveva portato l’attenzione sul tema. Questo Leone d’argento conclude un’edizione che si conferma in linea con le precedenti, per lo meno da quando Barbero è diventato direttore: la Mostra dà la possibilità a opere di grande rilievo e impegno, non solo artistico, ma anche e soprattutto sociale, di essere valorizzate, consentendone una maggiore visibilità e distribuzione. La speranza è quella di riuscire a diffondere il più possibile questo tipo di messaggi, confidando in una possibilità politica e non soltanto d’intrattenimento o di puro intellettualismo della settima arte.