Una verità scomoda e stratificata ⥀ Lenti eco-femministe per scandagliare le rappresentazioni dell’attuale ecocidio in Ucraina nelle opere di alcune poetesse ucraine

Pubblichiamo un intervento della scrittrice e traduttrice Pina Piccolo presentato al convegno «Voci dall’Ucraina: Donne filosofe e scienziate contro la guerra e l’ecocidio» tenutosi all’Università di Paderborn (Germania) il 27 e 28 ottobre 2023. L’intervento sarà pubblicato per intero in lingua originale inglese negli atti del convegno a cura dell’università. La traduzione italiana è a cura dell’autrice

 

Riconoscere l’ecocidio come parte del processo di colonizzazione

La tendenza molto diffusa a sottovalutare gli effetti della guerra in Ucraina, sia sulla popolazione che sull’ambiente, può essere collegata all’ambivalenza dimostrata a livello internazionale, in particolare tra gli strati intellettuali, nel riconoscere la lunga storia di relazioni coloniali tra Russia e Ucraina. Un’altra «verità scomoda», per citare l’espressione resa popolare nei primi anni Duemila da Al Gore in relazione al cambiamento climatico, che va al di là di eventuali colpe ideologiche e prese di posizione, è che in fin dei conti l’Ucraina è sottoposta ormai da molti anni a un ecocidio intenzionale che coinvolge la terra nel suo insieme e la sua gente. Il nucleo di questa relazione coloniale si manifesta in molti aspetti della guerra attuale, non solo sul fronte militare ma anche su quello culturale. È infatti con la parola «ecocidio» che un gran numero di intellettuali e scrittori ucraini ultimamente ne descrivono gli esiti più nefasti.

Denunciare gli effetti della guerra sulla terra e sulle persone non è una novità, quindi qual è la particolarità della voce delle donne nel discorso sull’ecocidio?

La prima volta che mi sono imbattuta specificamente in questo tema è stato dopo aver letto un articolo proposto da Anna Badkhen nella rivista statunitense «Emergencemagazine» in occasione del primo anniversario della guerra, contenente brevi saggi di 5 autori ucraini, tra cui Iya Kiva, che spiegavano in modo sintetico la dimensione della ferita e della devastazione:

La guerra significa sempre la fine del mondo. Il paesaggio che identifichiamo con le parole «il mio Paese», «la mia città», «la mia casa» muore sempre mentre alle persone che questi luoghi li abitano rimane tuttavia la possibilità di porsi in salvo. Di fronte alla guerra, la natura è sempre indifesa e disarmata. Questo perché, ad esempio, alberi, erbe e fiori non sono in grado di estrarre le proprie radici dal suolo ucraino, non possono fuggire verso luoghi più sicuri, trasformandosi in profughi. È proprio questo il motivo per cui le fotografie di alberi feriti, spezzati, carbonizzati e distrutti sono i segni di morte che in tutto il mondo comunicano la guerra. Qualcuno conta il numero di piante uccise e ferite in una guerra? Temo di no. È possibile ricostruire anche un solo albero abbattuto? No, tutto quel che si può fare è piantarne uno nuovo. Se la terra ce lo permette, se la terra ci perdona. L’ambiente non ha la possibilità di vincere una guerra, perde sempre.
(Kiva, in «The Fallout», 2023)

E poi continua presentando l’analogia tra ecocidio e stupro:

E le perdite di ecosistemi e di processi instaurati nelle biocenosi sono irreversibili e innumerevoli, perché la guerra non può che violentare il corpo della terra, riempiendolo di razzi, granate, bombe, mine, armi, equipaggiamenti militari come se fosse la vagina di una donna. Così, per molto tempo a venire, per anni e anni, la terra non potrà partorire, non potrà essere una casa per gli esseri viventi, non potrà ospitarli. E nessuno di noi sa quando la terra troverà la forza di riprendersi, e se si riprenderà del tutto. Le verdi spine dorsali delle nostre foreste, i forti denti delle nostre montagne, i corpi flessuosi dei nostri fiumi e dei nostri mari, la pelle delle nostre steppe, tenera come l’erba piumata, l’inafferrabile respiro della nostra aria: sono tutti insudiciati, deturpati e avvelenati dalla guerra.
(Kiva, in «The Fallout», 2023)

Un’analogia potente che evoca in maniera grafica la condizione di devastazione della terra e lo stupro del corpo femminile mettendoli in relazione. In altri contesti potrebbe trattarsi di un’equivalenza troppo facile, in cui la donna diventa una controfigura della natura, riallacciandosi a tendenze essenzialiste ormai contestate che riducono il rapporto tra donna e natura a biologia. Lungi dall’essere un’esternazione di un sentimento non mediato, nella descrizione di Iya Kiva si esercita il mestiere del poeta con un linguaggio preciso, una specificità che denota una profonda e personale conoscenza degli ecosistemi e la capacità di formare immagini che si riferiscono a diverse parti del corpo umano, richiamando quell’intuizione di Toni Morrison secondo cui «il caos può contenere forme di conoscenza, persino di saggezza». Il discorso riporta anche ad alcuni punti sollevati dalla prof. Karpenko in un intervento sull’etica della cura, che sottolinea l’importanza della metafora nell’interpretare e trasmettere contesti nuovi che non possono essere colti con la lente dei vecchi paradigmi. Kateryna Karpenko collega questo importante cambiamento concettuale a uno studio wittgensteiniano sulla metafora (Karpenko, Voci dall’Ucraina, 2023, min. 10,01-12,06) e credo che un ulteriore approfondimento di questo strumento analitico possa dare risultati illuminanti.

Tornando alla scrittura creativa, un recentissimo saggio di Zarina Zabrisky sull’ecocidio, un incrocio tra il giornalistico e il memorialistico, si colloca più indietro nella storia dell’Ucraina. Pubblicato nel 2023, l’articolo si apre, non a caso, con la citazione di un poeta tedesco che così definisce la filosofia:

La filosofia è in realtà nostalgia di casa, un’esigenza di essere a casa ovunque.
Dove andiamo, allora? Sempre a casa nostra.
Novalis, Frammenti

Rivisitando ora la Zona, ossia la zona di esclusione che la poetessa Natalia Beltchenko esplora a lungo nelle sue poesie, Zarina Zabrisky ricrea magistralmente il luogo devastato di un precedente ecocidio, con occhi che potrebbero essere usati su quelli attuali:

Luda e io percorriamo il sentiero di cemento che porta all’hotel Polissya, che prende il nome dalla terra che si trova qui, derivata da lis, foresta. La foresta è ovunque, una bizzarra giungla nordica. Una solitaria palla di vetro natalizia pende da un abete, ondeggiando nella brezza estiva. Il tempo si ferma, i vermi del tempo rosicchiano la Zona in silenzio. No, il tempo non si è solo fermato, qui è obsoleto. Il 26 aprile 1986 si è fermato. Ho sentito dire lo stesso del 24 febbraio 2022. Molti in Ucraina hanno detto che questa cessazione del tempo non è mai finita. A Chornobyl, a Pripyat, questa interruzione, questo intoppo temporale, è stratificato come tutto il resto. Il lembo di una chemise che spunta da sotto una vecchia gonna. Spazio congelato nel tempo; tempo impresso nello spazio. La fragilità di trovarsi nel posto più tranquillo del mondo.
Passo davanti a una scatola di metallo arrugginita che un tempo era un distributore d’acqua, un bicchiere vuoto appoggiato a testa in giù su una piccola mensola, e sento piccole bollicine di acqua gassata tinta di sciroppo di soda, tre corone a botta, scoppiare sul mio palato. Un mini-sarcofago per un’epoca passata, una bara di cristallo per un sogno fallito, un amore imprigionato.
(Zabrisky, Orion, 2023)

Metafore che combinano una sensibilità fantascientifica con un’attenzione sartoriale multistrato, come tutto il resto. «Il bordo di una chemise che spunta da sotto una vecchia gonna». Ancora una volta lo sfruttamento di un’area semantica femminile al servizio della precisione dell’immagine. L’occhio acuto della fotografa incontra la mente acuta della filosofa, il tutto confezionato nella turbolenza della storia e nel racconto di un Paese poco conosciuto al resto del mondo.

Inviate speciali, queste donne scrittrici, artiste, fotografe, ma che, per il territorio irto di trappole in cui si avventurano, incarnano anche un po’ lo spirito truffaldino del trickster. Ancora una volta emerge una «scomoda verità», mentre una piccola armata di poeti, in maggior parte donne, provenienti dall’Ucraina si propone di andare contro la marea di omissioni volontarie.
Il mondo non è abituato, infatti, al via-vai di un gran numero di poetesse che nell’ultimo anno e mezzo hanno regolarmente sfrecciato dentro e fuori i confini nazionali in missione culturale e, lungi dal soffermarsi nostalgicamente su una patria che sono state costrette a lasciare, versificano in modo non pacifista sulla resistenza, presentando scenari scomodi, rifiutando di assumere un personaggio duttile, modalità appartenente all’informatore nativo, e tutte insieme, con le loro poetiche variegate, costruiscono una trama di poesia molto specifica. I titoli delle raccolte e delle singole poesie attestano la loro funzione dirompente nei confronti del pubblico, che a mio avviso va ben oltre una poetica della testimonianza e sfida gli ascoltatori a uscire dalla zona di comfort di ciò che si aspettano da un poeta (soprattutto se donna).

Solo considerando le poetesse con cui ho avuto la fortuna di lavorare direttamente, mi viene in mente il titolo della premiata raccolta di poesie bilingue ucraino-inglese di Halyna Kruk, appena uscita, intitolata A Crash Course in Molotov Cocktails (Arrowsmith 2023), che si riferisce con orgoglio alla resilienza delle e dei civili ucraini che hanno organizzato da soli la difesa dei quartieri nella prima fase dell’invasione. Naturalmente si tratta di un titolo insolito per un libro di poesia, che contraddice aspettative di armonia e bellezza. Una delle poesie della raccolta offre un punto di ingresso dal carattere domestico nella dimensione urbana dell’ecocidio: «la storia di un ficus, raccontata da un umano che preferisce comunicare con le piante», poesia che racconta la vita quotidiana di un ficus in vaso che sopravvive in un appartamento bombardato:

Un ficus abbandonato non può andare da nessuna parte, anche se il missile
ha dato un barlume di speranza
e un improvviso impulso verso il mondo esterno…
lasciato a se stesso dal mondo degli umani.
[…]
il ficus qui sotto sopravviverà e manderà dei germogli
lascerà il suo vaso rotto
stringendo il prato nero con radici assetate
orgoglioso crescerà aspettando
lo strascichio delle pantofole del suo vecchio, confidenze da cuore a cuore,
semplici piaceri vegetali.
(Kruk, A Crash Course, p. 41)

E qui la poetessa legge oltre la resilienza biologica della pianta una possibile alleanza con il mondo umano, che si rivela nella nostalgia della pianta per i passi strascicati del vecchio che abitava nell’appartamento, come se in tempi di guerra, quando tutto viene ribaltato, anche le gerarchie tra umano e non umano possano essere ribaltate, si possano creare alleanze speciali. Forse una di quelle metafore wittgensteiniane studiate da Kateryna Karpenko per cogliere ciò che i vecchi paradigmi non riescono a cogliere, e allo stesso tempo un sotteso anelito di cura, un grido contro la solitudine del mondo caratterizzato dalla noncuranza. E qui la cura cessa di essere destino biologico che si manifesta nelle donne, ma diventa piuttosto il riconoscimento dell’interrelazione tra tutti gli esseri.

 

Di alluvioni provocate dall’uomo, di legami familiari troppo stretti, di uccelli e resistenza

Catturare in queste praterie alluvionali,
viaggiare negli odori e nei suoni
vedere la coincidenza istantanea del tempo
[…]
Siamo qui per respirare lo spazio a prescindere dal tempo
dell’epoca malvagia della nuova guerra,
parole feroci bloccate nei sogni
ci svegliano nel cuore della notte
(Beltchenko, Ver Sacrum)

Per Natalia Beltchenko, poetessa ucraina che ho avuto il piacere di conoscere e accompagnare nelle sue tournée italiane, oltre a tutti gli esseri viventi e inanimati incorporati nella terra, è importante ricordare che anch’essa è abitata dagli strumenti di guerra (proprio quelli enumerati nel racconto di Iya Kiva). La loro stessa presenza porta a parole feroci bloccate nei sogni che, suscitando grande ansia, svegliano la poetessa. Tuttavia, i respiri e le energie che popolano gli ecosistemi sottoposti a ecocidio attraverso la brutalità della guerra in corso non appartengono esclusivamente agli esseri umani, né sono loro le principali vittime o i principali resistenti.
Qualche anno fa, prima del 2022, Beltchenko aveva ambientato una serie di poesie nella zona di esclusione di Chernobyl (lo stesso territorio descritto da Zarina Zabrisky) creando uno spazio in cui i lettori potessero assistere alla rigenerazione della natura. Chiunque sia disposto ad ascoltare e vedere, a cogliere i segni, può partecipare al mistero di un gioioso superamento della distruzione, pur riconoscendo gli spazi vuoti lasciati (e come Zabrisky, anche lei usa una metafora tessile):

I fienili in rovina diventeranno insensibili,
le ultime lampade si spegneranno,
e questo spazio coccolerà la ragazza,
come l’unicorno del Museo di Cluny.

C’è qualcosa di quell’arazzo
nella Zona, in alcuni punti non è tessuta:
il rito della primavera potrebbe ancora
intrecciarci i baci della Terra.
(Beltchenko, Ver Sacrum, traduzione mia)

Fondendo l’immagine della terra e dell’arazzo, anche se l’arazzo dell’unicorno nel museo di Cluny può contenere spazi vuoti, la poetessa esorcizza la loro potenziale negatività affermando che sono proprio quegli spazi vuoti che riceveranno il bacio della primavera.
Gli spazi vuoti nella terra/arazzo di Natalia Beltchenko possono ricordare le macchie «calve» sugli alberi evocati dalla poetessa Ella Yevtushenko:

Alberi

Cos’è questo albero – senza corteccia?
mi chiede
e io sto lì e vedo una persona senza pelle di cui tutti hanno dimenticato il nome.

se il mondo si riflette nel linguaggio
alcune sue parti sono punti vuoti su una mappa
come le migliaia di nomi sotto i nostri piedi
così tante erbe e parole che non abbiamo mai sentito nominare o quelle che abbiamo sentito nominare ma che non abbiamo mai                                                                             potuto
abbinare alle piante reali
e anche l’intera foresta di nomi di alberi che non conosciamo
e tra questi, alberi come questo, senza corteccia e senza pelle
(Yevtushenko, The Dreaming Machine, 2023, traduzione mia)

Nei suoi versi che si concentrano sul linguaggio e sull’ignoranza umana, la poetessa collega sia il destino fin troppo umano di quei «punti vuoti sulla mappa» emarginati che colpiscono Paesi come l’Ucraina, sia il destino delle umili erbe calpestate dall’uomo, nella nostra incapacità di dare un nome a questi esseri vicini.

Ciò che è vagamente riconosciuto in quest’ultima poesia è ulteriormente sviluppato nella poesia foresta urbana, in cui Ella Yevtushenko crea magistralmente una tensione poetica ponendo chi legge nella posizione di testimoni umani dell’ecocidio. Forse «respirando lo spazio», come suggerisce Beltchenko nella poesia citata in precedenza, chi legge cerca di percepire le alterazioni subite dalla foresta urbana durante un bombardamento russo, pur non essendo mai del tutto sicuri che il poeta non stia invece alludendo alla sua scomparsa totale. Strutturando un orribile crescendo di mezze rivelazioni e scoperte, la poesia inizia con una metafora tessile e un’inquietante visione di rottura («il filo che si strappava», tearing in inglese, che gioca sull’ambiguità tra strappare – nel significato di stracciare – e tearing nel senso di lacrimare), che viene inizialmente controbilanciata dall’evocazione rassicurante ed esteticamente piacevole delle perline lucenti. Ma la similitudine della chioma di una foresta come un bellissimo tessuto pieno di gemme scintillanti viene presto ribaltata nella macabra suggestione degli occhi lucenti di uccelli morenti che precipitano a terra. Il risultato è una tranquillità inquietante, in cui si avverte solo l’eco della precedente vivacità di una foresta brulicante di vita. In questo silenzio spettrale, vengono evocate immagini fantasma di relazioni dolorose passate, come quella del guardaboschi che taglia tutti i rami sul tronco, seguita ancora una volta da una metafora tessile, il pizzo del canto degli uccelli (a chi legge viene lasciato il compito di colmare le lacune nelle informazioni esplicite, assistendo alla caduta degli uccelli nel sottobosco ormai gelatinoso). È impossibile dire se gli uccelli che continuano ostinatamente a costruire i loro nidi facciano parte della moltitudine massacrata o siano riusciti a sfuggire all’apocalisse della foresta urbana, poiché si sente il rombo di qualcosa che poi smette (potrebbe essere il suono della sirena, potrebbero essere gli stessi uccelli).

foresta urbana

un filo strappato/lacrimato sul telaio degli alberi
piove perline dappertutto
perline lucide come gli occhi del merlo
cadono e poi tacciono
solo l’eco di un trillo
fluttua dove un uccello svolazzava
solo foglie frusciano
sotto i piedi del fantasma di un guardaboschi
che ha tagliato tutti i rami sul tronco
il pizzo dei canti degli uccelli
si imprigiona nel sottobosco come nella gelatina
il sottobosco caldo come piume
che coprono il nido del picchio
una coppia di picchi ignora le sirene
così come una coppia di colombacci che continuano a costruire il loro nido
rombano in lontananza per un po’
rombano
e poi si fermano
(Yevtushenko, The Dreaming Machine, 2023)

A differenza dell’inquietante passato umano evocato dal fantasma del guardaboschi che taglia i rami nella poesia di Yevtushenko, negli ambienti naturali di Beltchenko, anche quando sono disturbati dalla guerra, il terrore è controbilanciato da scene della natura che continua il suo corso, la sua osservazione che settant’anni prima le stesse scene della terra e degli animali erano state osservate dal padre e dalla nonna nella «foresta umida e ostinata che aveva vita in ogni fessura / tutto si accoppiava in marzo e aprile / dando segni, allora come oggi, da cogliere». L’ultimo sonetto della serie si conclude con due terzine piene di speranza: «Lasciate che i nostri destini e i nostri cari ci allontanino, ma più in là nel nostro stato originale / Varcheremo la soglia del tempo // Gli antenati ci racconteranno ciò di cui non hanno avuto il tempo di parlare / e questo scioglierà nel crogiolo stellare / ciò che siete stati in grado di afferrare per la prima volta / tutto in una catena di conoscenza» (Beltchenko, Sonetti di Bialowieza, 2023). Così, le connessioni tra le generazioni umane, interrotte dal tempo terreno, sono unite dall’uniformità dei processi naturali che risorgeranno ancora una volta nel crogiolo del cosmo, che renderà la conoscenza nella sua interezza disponibile a tutti.

La filosofa eco-femminista ucraina Kateryna Karpenko colloca la sua ricerca e le sue riflessioni sul terreno della ricerca di una metodologia efficace a cui attingere per un approccio di genere all’ecologia e all’ambientalismo, avendo studiato a fondo la storia e le tendenze del settore, avendo sperimentato per anni le intersezioni e gli incroci tra etica, teorie della giustizia, filosofia ed economia. Come le poetesse impegnate nella diplomazia culturale analizzate in questo capitolo, anche lei da studiosa legata all’università svolge un ruolo analogo a livello accademico e scientifico, agendo come forza trainante nella stesura di articoli e organizzazione di conferenze internazionali, e partecipando a incontri internazionali fino all’Argentina nonostante le difficoltà della guerra. E appunto riconoscendo l’importanza del contesto è consapevole che potrebbe essere necessaria una lente diversa per comprendere e incidere positivamente sul mondo prima di una guerra, durante e dopo. Si avvale quindi dei contributi di Ludwig Wittgenstein sulla metafora, che hanno il vantaggio di offrire una spiegazione naturalistica di idee psicologiche, strumento utile nell’interpretazione di nuove situazioni nel contesto di nuove realtà. Kateryna Karpenko fa riferimento all’importanza assegnata da Judith Butler al contesto nell’analisi di genere, e ciò riveste particolare importanza nel momento in cui l’umanità si muove nella direzione di riconoscere come soggetti gli animali e gli altri esseri (Karpenko, Donne filosofe, 2023). Ciò avviene anche in una fase in cui l’ecocidio perpetrato dalla Federazione Russa in Ucraina merita un concentro di attenzione, denuncia e azione anche a livello di strumenti internazionali. Molte poesie scritte negli ultimi mesi rispecchiano il fatto che anche la bussola morale e poetica dei poeti ucraini si sta muovendo in tale direzione, e si sono sviluppate importanti solidarietà con riviste letterarie cartacee e online all’estero che hanno pubblicato pezzi sul tema di scrittori ucraini.

Nel contesto dell’ecocidio causato dall’invasione e dalla guerra, la poetessa Iryna Shuvalova ha scritto il potente poemetto great water triptych, ambientato nell’estesa area allagata che comprende terreni agricoli, foreste e città travolte dalle acque del fiume Dnipro dopo che la diga di Kakhovka era stata fatta saltare nell’aprile 2023 nell’ambito della strategia bellica russa per rallentare la controffensiva ucraina. La sezione «I. dopo il diluvio» verte appunto sulla locuzione «après le déluge», che con la palese mancanza di maiuscola colloca immediatamente l’evento in un modesto spazio umano che si scontra con l’ambientazione biblica del Grande Diluvio o con le ultime frasi famose di re francesi, ricorrendo tuttavia a tutti i tropi “classici” e calandoli nell’esperienza reale della gente comune che vive una «tragedia naturale» provocata dall’uomo. Assistiamo quindi a un Noè sconcertato e minuscolo che «naviga» nel suo «piccolo» motoscafo ed è mortificato dal fatto di non poter ripetere l’impresa del suo omonimo biblico: «questa volta non ci sarà un a due a due»; «se solo avesse avuto l’arca – ma era malconcia per via /dell’artiglieria dell’altra sponda», e mentre riesce a salvare un gatto ben inzuppato e un cane con la coda tra le gambe (suggerendo la paura e l’umiliazione che accomuna uomini e animali). Shuvalova usa una similitudine religiosa per descrivere l’acqua infinita che fa capolino sopra i tetti degli edifici e le chiome degli alberi, «come le schiene di coloro che pregano / prostrati a terra», portando apertamente la fede di fronte al disastro, ma alludendo alla futilità dell’attività, poiché le preghiere scivolano tra le dita dei devoti raggrinzite dall’acqua. Questa prima suggestione dei fedeli prostrati si trasforma in una vera e propria preghiera e invocazione nella sezione 2 del trittico, «pescatori» (sempre minuscolo):

che cos’è il mare di galilea rispetto al
mare di kherson
che la terraferma qui è diventata improvvisamente

perché Signore ci hai fatto pescatori di uomini
perché hai fatto nuotare le persone come pesci
e hai lasciato che i pesci morissero sulla terraferma

le nostre reti sono diventate pesanti, oh Signore, ma noi
esitiamo a tirarle fuori dall’acqua, temiamo
che il nostro pescato sia troppo abbondante
(Shuvalova, 2023)

Questa sezione, un mix tra le caratteristiche umili e umane del Nuovo Testamento e il tono epico utilizzato nella narrazione degli eventi dell’Antico Testamento, si conclude con una denuncia indiretta della mancanza di azione da parte di Dio: «le nostre bocche non sono in grado di sorbire / il mare del tuo silenzio». Minando ulteriormente gli elementi di sublime che a volte caratterizzano il discorso religioso, l’ultima sezione, «3. Uno», porta sulla scena un messia ridotto a misura di uomo:

Qui è stata stesa così tanta acqua che colui
che può camminare su di essa potrebbe raggiungere ogni cortile
e passare dalla superficie scintillante
alle soglie dei davanzali e ai portici dei tetti
aiutando quelle persone esauste […]
(Shuvalova, 2023)

procedendo poi a tracciare il difficile percorso acquatico intrapreso dall’«uno» mentre si avvia sulla strada della «salvezza/salvataggio». Entrato nella stessa dimensione delle vittime dell’alluvione, si impegna in banali operazioni di salvataggio, aiutando le nonne a mettersi gli stivali di gomma e i bambini a recuperare i compiti inzuppati. L’ultimo di questa litania di soggetti da «salvare» (e qui bisogna notare la connotazione ribassata del concetto religioso di «essere salvati») è un cane arruffato che il messia (ormai uomo e animale domestico) abbraccerà e porterà con sé a lungo. Queste righe evocano le immagini di persone in fuga che portano amorevolmente i loro animali domestici, un’immagine decisamente da romanzo di guerra del XXI secolo, che è stata la caratteristica di come gli ucraini in fuga sono stati ritratti dai media e percepiti dagli spettatori in Occidente (un elemento che merita un’analisi approfondita). L’autostima del messia in quanto artefice di miracoli, portatore di discorsi ierofantici, viene riportata a terra mentre cerca di rassicurare l’animale traumatizzato:

sussurrandogli all’orecchio qualcosa di assolutamente non biblico
e semplice come shh semplice come non preoccuparti non piangere
semplice come un giorno torneremo tutti a casa
(Shuvalova, 2023)

A differenza della consolazione che Beltchenko trovava nel legame con gli antenati, il malessere che regna sulla terra e sugli ecosistemi governa anche le relazioni tra gli esseri umani, persino nella sfera familiare, come illustra Daryna Gladun nella serie di poesie di grande impatto pubblicate in The Dreaming Machine, che testimoniano come la catena di abusi fisici si tramandi di madre in figlia, sotto l’egida di un orologio che segna l’ora di lavoro e l’ora di scuola, e la punizione è inflitta dalle lancette dell’orologio e da un cucchiaio, mentre la stretta psicologica si trasforma in una metafora fisica ellittica della madre che pettina i capelli della figlia con violenza, stringendo troppo le trecce della bambina in modo da farle sentire la stretta del suo controllo:

vicino alla grossa perla viola che ho ricevuto per aver detto a mia madre che la odio
vicino all’altro paio di perline ricevute per essere «proprio come mio padre»
vicino a decine di perline di legno simili

perché in questa famiglia non si parla a tavola
vicino a centinaia di perline
ognuna destinata a farmi una lezione

quale era la lezione dimmi quale era la lezione
vicino a un numero infinito di perline che sono pettini spezzati dei miei lunghi capelli sporchi
(Gladun, The Dreaming Machine, 2023)

La poetessa percorre quindi l’intera gamma di relazioni e interdipendenze, dal nucleo famigliare all’ambiente, agli estranei su un treno, ai rifugiati in fuga da una guerra passata, mescolando i traumi del passato e del presente e amalgamandoli senza soluzione di continuità. Si tratta di un meccanismo a orologeria, quella dell’ereditarietà del trauma, accentuata dalla banalità degli elementi che la compongono: gli oggetti quotidiani – pettine e orologio – che assicurano la trasmissione delle ferite di abusi e violenze, tramandate di madre in figlia. Il corpo è protagonista, l’alterità è incarnata, subisce la stretta delle trecce (che solo un’altra donna può imporre).

Il tema della trasmissione del dolore senza soluzione di continuità è ben illustrato nella poesia Paesaggio di mezza estate, che contrariamente alla tranquillità che il titolo potrebbe suggerire evoca le conseguenze della guerra in corso su una foresta e sui suoi abitanti in Ucraina. Sebbene si tratti di frammenti di parti del corpo – la testa di un cervo, la coda di un pettirosso, fili di lana – Daryna Gladun crea un corpo per il dolore che è specifico, non può essere un altro, anche se può essere fuso in un insieme:

4.

il rumore degli zoccoli si avvicina
l’urlo di ogni creatura in grado di urlare si avvicina
e con rapidità
la paura collettiva degli animali

passa la testa di un cervo morto
passa coda di un pettirosso
passa un corpo collettivo di paura coperto di piume e di lana
indistinguibile
irreversibile
(Gladun, The Dreaming Machine, 2023)

La domanda che riceve da un altro poeta chiama in causa la consapevolezza del contesto specifico bellico in cui si trova a vivere, ma il modo in cui Gladun risolve il dilemma è ambiguo, in quanto le parti 1 e 5 suggeriscono sia il trauma a lungo termine che la transcorporeità:

il 28 settembre 2022 a Uppsala, in Svezia
una poetessa bielorussa, Kristina Bandurina, mi chiedeva
se sarò in grado di scrivere poesie su qualcosa di diverso dalla guerra una volta che la guerra sarà finita
Ho risposto certo
Le ho risposto di guardare le parti 1-5 di questa poesia
Ho risposto
Sì?
Kristina sorrise
Sto piantando il suo sorriso in un terreno ferito sulla riva del fiume Connecticut, per resistere
(Gladun, The Dreaming Machine, 2023)

A questo proposito, una poesia di Victoria Amelina offre un’illustrazione molto forte del dilemma sollevato dalla resistenza in relazione al ruolo del poeta. Si tratta di un testo di una delle poetesse più note a livello internazionale per il suo impegno nella diplomazia culturale, rimasta vittima il 27 luglio 2023 di un bombardamento russo che aveva colpito una pizzeria a Kramatorsk mentre stava cenando con l’acclamato scrittore colombiano Héctor Abad e una delegazione culturale colombiana per discutere sulla documentazione dei crimini di guerra russi contro la popolazione civile in Ucraina.

In un’altra forma di ironia della sorte, era stata proprio lei a svelare e recuperare l’opera poetica occultata di un altro poeta ucraino, Volodymyr Vakulenko, che, per proteggerli, aveva seppellito i suoi fogli e libri prima di essere ucciso. Come molte delle poetesse analizzate in precedenza, anche Victoria Amelina utilizzava spesso metafore legate agli animali e all’ambiente. Alludendo a un possibile significato delle proprie azioni di poetessa/attivista, in una strofa che sembra una premonizione della sua fine, espone il compito di una cornacchia in un campo devastato e sterile: «Quella che è volata via troppo presto / Quella che ha implorato di morire / Quella che non è riuscita a fermare la morte / Quella che non ha smesso di aspettare / Quella che non ha smesso di credere / Quella che ancora piange in silenzio...» (Amelina, «The Guardian» 2023). Personificazione quindi della poetessa il cui compito consiste nel chiamare e nominare tutte le sue sorelle e conclude:

[…] e dal dolore e dai nomi delle donne
nasceranno dalla terra le sue nuove sorelle
e canteranno di nuovo con gioia la vita.

Ma che dire di lei, la cornacchia?

Rimarrà in questo campo per sempre
Perché solo questo suo grido
trattiene in aria tutte quelle rondini

Sentite come chiama
ciascuna per nome?
(Amelina, 2023)

Concludendo con un’immagine di speranza in relazione al destino collettivo, anche se la singola cornacchia/poeta deve sacrificare la propria vita per tenere a galla il futuro «…solo questo suo grido / trattiene in aria tutte quelle rondini», Amelina dà pieno riconoscimento alla potenza dell’arte della poesia e con il suo immaginario la colloca nel misterioso territorio dell’interrelazione, dell’intelligenza, della transcorporeità, sicuramente un terreno ricco che merita l’esplorazione congiunta di filosofia, scienza e letteratura.

 


Bibliografia

Amelina, Victoria, Poem about a crow, traduzione inglese di Uilleam Blacker, in «The Guardian», 3 luglio 2023. Recuperato il 15 ottobre 2023.

Beltchenko, Natalia, Bialowieza sonnets, traduzione inglese di Eudokia Slepukhina, inediti.

Ead., Ver sacrum, traduzione inglese di Amelia Glaser e Yuliya Ilchuk, inediti.

Gladun, Daryna, A flock of cardinals melted in the scarlet sky: poems by Daryna Gladun, The Dreaming Machine, 3 maggio 2023. Recuperato il 15 ottobre 2023.

Karpenko, Kateryna. Ecofeminism and the Ethics of Care, dalla serie Voices from Ukraine. Intervento del 27/05/2022, pubblicato nel seguente video di YouTube visibile qui. Recuperato il 15 ottobre 2023.

Ead., Gender Justice and Ecological Issues, in Edith Hagengruber, ed. Women Philosophers on Economics, Technology, Environment and Gender History: Shaping the Future, Rethinking the Past, De Gruyter 2023, pp. 57-68.

Kiva, Iya, «The Fallout – Voices from Ukraine», a cura di Anna Badkhen, in «Emergence magazine», 23 febbraio 2023. Recuperato il 15 ottobre 2023.

Kruk, Halyna, A Crash Course in Molotov Cocktails, traduzione di Amelia Glaser e Yuliya Ilchuk, Arrowsmith 2023.

Morrison, Toni, No place for self-pity, no room for fear, «The Nation», 23 marzo 2015. Recuperato il 15 ottobre 2023.

Shuvalova, Iryna, great water triptych, traduzione inglese di Uilleam Blacker. Klimaaksion/Norwegian Writers Climate Campaign, 20 agosto 2023. Recuperato il 15 ottobre 2023.

Yevtushenko, Ella, The wolf hour and other poems by Ella Yevtushenko, traduzione inglese dell’autrice, The Dreaming Machine, 3 maggio 2023. Recuperato il 15 ottobre 2023.

Zabrisky, Zarina, Homesick : A return to Chornobyl’s radiant landscape, «Orion magazine», 12 settembre 2023. Recuperato il 15 ottobre 2023.