Verrà la morte e avrà i cimiteri: reportage funerario di un viaggio in bicicletta nei Balcani meridionali ⥀ Racconto di Michela Pusterla
Tra vita e morte: Michela Pusterla racconta del suo viaggio in bicicletta nei cimiteri dei Balcani meridionali riflettendo sul valore politico e sociale della morte
È uno sguardo che sa leggere i cimiteri, quello che parla nel reportage di Michela Pusterla, già autrice di diari di viaggio, ancora quasi del tutto inediti, in cui la bicicletta e il pensiero si ritrovano a godere di un medesimo ritmo (un esempio qui), e dove anche gli avvenimenti, gli incontri più autobiografici e casuali divengono lo sfondo di osservazioni più vaste, irriducibili al biografismo. In questo caso, a innervare lo sguardo, nella sua lettura cimiteriale, c’è un’urgenza, politica e sociale: «quella di pensare un rito funebre civile, che valga anche per quei poveri cristi che non possiedono una comunità di appartenenza già dotata dei propri simboli». Il che significa, forse, ripensare la morte in una zona franca, che non sia né quella delimitata dalle confessioni religiose, né quella perimetrata dalle solitudini individuali.
Verrà la morte e avrà i cimiteri: reportage funerario di un viaggio in bicicletta nei Balcani meridionali
Siamo partiti, io e Giulio, il 7 luglio 2024, tre giorni dopo il funerale di mio nonno Pio, cioè il primo funerale di un membro della mia famiglia al quale io abbia partecipato, se si esclude quello di mio nonno Pietro nel 1996. Il percorso prevedeva una camminata di novanta chilometri in Bosnia, e poi una traversata in bicicletta da Tuzla, sempre Bosnia, a Tirana, in Albania, attraversando alcune regioni della ex Jugoslavia dove non eravamo stati durante un nostro precedente viaggio in bicicletta nell’estate del 2021.
Questo viaggio è iniziato con la morte, quella di mio nonno e quella degli 8732 bosniaci ammazzati nei dintorni di Srebrenica nell’estate del 1995. La marcia alla quale abbiamo partecipato infatti, la Marš mira, marcia della pace, è l’attualizzazione postbellica della Marš smrt, quella della morte, che quegli ottomila uomini e bambini confinati a Srebrenica percorsero nel luglio del 1995 per mettersi in salvo dalle truppe serbo-bosniache di Ratko Mladić. Se c’è qualcosa di ineffabile più della morte, è la sua declinazione genocidaria. Non so che lingua, ma non sicuramente quella di un popolo colonizzatore che io parlo, possa dire di migliaia di persone alla fame costrette a marciare nei boschi per mettersi in salvo, e invece sparate e ingannate e tradite e sepolte e dissotterrate e riseppellite a pezzi, a brandelli, in milioni di dimenticanze, di comi, eccetera. Ma se quella è una morte indicibile a me che non so la poesia, esiste un’altra declinazione della morte, quotidiana, paesaggistica quasi, una morte che si vede per la strada quando la si percorre lentamente, per esempio in bicicletta: ed è la morte dei necrologi e dei cimiteri. È di questa morte che ho cercato le parole.
Non è la prima volta che andiamo in bicicletta nei Balcani e Giulio, ormai, ha una teoria: che si possa capire in che Paese ci si trova, o che gente si ha intorno, guardando le marche dei tendoni della birra e i cimiteri. In una terra dove i popoli sono sempre vissuti mischiandosi spesso sotto dominazione straniera e i confini degli attuali Stati-nazione sono il risultato di ricollocamenti forzati, stermini e interessi geopolitici di Paesi occidentali, questo criterio è meno peregrino di quanto potrebbe sembrare. I croati non abitano in Croazia ma ovunque si bevano Karlovačko e Ožujsko, sotto un tendone giallo della Jelen o uno blu della Lav si possono tendenzialmente trovare dei serbi, mentre la Sarajevsko la bevono i bosniaci, generalmente anche quelli musulmani. La Laško, la birra slovena che beviamo a Trieste, la si può trovare ormai fino in Grecia.
Quanto ai cimiteri, invece, la questione è più interessante, quantomeno dal punto di vista narrativo.
Gli ortodossi, ad esempio, impiegano delle pietre tombali abbastanza simili a quelle cattoliche in uso in Italia: si tratta di steli poste perpendicolarmente al suolo completate da una lapide orizzontale in pietra appoggiata a terra o da un cordolo di marmo che delimita un’aiuola. In genere, si tratta di lastre in granito scuro, quasi nero, sulle quali negli ultimi anni si è presa l’abitudine di incidere, credo con il laser, il ritratto della persona defunta a dimensione quasi naturale. Questi vólti, non sempre di ottima fattura, ti guardano passare, rappresentando loro malgrado un fatto anacronistico, una stonatura, un kitsch. Mi spiego meglio. Nel lutto, a me pare, c’è un’ingiunzione all’eterno: se eterna è la morte stessa, il fatto più di tutti che non ha mai fine, eterna deve essere in qualche modo anche la sua estetica. Se si potessero datare una tomba, una bara, una cerimonia funebre, riconducendole a un decennio preciso, in base alla moda mortuaria del periodo, la morte stessa perderebbe di serietà. Al contrario, è necessario che ogni pieguzza dell’intero catafalco rituale funebre abbia la parvenza dell’eterno, che per comodità spesso assume la forma del classico: dal carattere tipografico ai materiali, dai gesti alla prossemica delle condoglianze, dai canti funebri all’atto di dolore, tutto deve essere apparentemente privo di tempo, o quantomeno indatabile. Queste fotografie incise su pietra scompaginano questa regola con il loro essere sfacciatamente recenti, con il loro gridare inopportunamente che sono un prodotto tecnologicamente avanzato. Essendo databili, saranno presto datate, cioè vecchie. Mi pare che rappresentino quel fatto umano che tanto angosciava Leone Tolstoj: il ridicule.
In particolare, poi, le tombe ortodosse riproducono a modo loro l’organizzazione familiare patriarcale. Al posto di un’unica lastra familiare, dove in cima sta il capofamiglia e a scendere moglie e figli non sposati, come avviene nei cimiteri cattolici cui siamo avvezze, l’architettura funebre ortodossa prevede una doppia pietra tombale, una per lui e una per lei, come Josip e Jovanka Broz nel mausoleo di Belgrado: della coppia ortodossa, la tomba celebra le singolarità. Nel caso delle persone comuni, queste due pietre sono disposte una a fianco all’altra e a volte riproducono nella foggia delle ali di farfalla con un angolo ottuso inferiore a 180°, in modo che i vólti dei defunti possano contemporaneamente guardare chi fa visita alla tomba e guardarsi tra di loro, scambiandosi in eterno un cipiglio.
Spesso capita – ed è un fatto che mi desta un certo imbarazzo – che il monumento funebre venga preparato nel suo complesso alla morte del primo dei due coniugi, statisticamente l’uomo: a fianco della lapide del marito morto, viene posta quella della moglie viva, con tanto di nome, fotografia, data di nascita. Mi chiedo quale sia la ragione della scelta: forse economica (la vedova si assicura un lavoro ben fatto, e a prezzo scontato, senza delegare ai figli, magari distratti o taccagni) o forse estetica (cosicché la grafica familiare sia la stessa e, a distanza di anni, non si vedano incoerenze di carattere tipografico, ove già ci furono incompatibilità di carattere). Quale che sia il motivo, mi immagino la signora Dragana Vojvodić che, il sabato mattina, si bagna i fiori e si ripulisce il marmo della sua tomba, confutando con la prassi la teoria di Epicuro secondo la quale la morte è dove noi non siamo.
Tra i cimiteri ortodossi che abbiamo visto in questo viaggio, uno è stato diverso dagli altri. Si trova in Bosnia, a Zvornik, un posto dove durante il genocidio degli anni Novanta vennero distrutti non a caso due cimiteri musulmani. Dico «non a caso» perché distruggere un cimitero racchiude l’essenza stessa dell’intento genocidario: infatti, l’obiettivo di chi organizza e mette in atto un genocidio non è tanto quello di ammazzare delle persone (e nel caso di un cimitero questo è chiarissimo perché è letteralmente un posto per gente già morta) quanto quello di «distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale», cioè di eliminare l’idea stessa di un popolo, la sua storia sulla terra e la sua possibilità di riprodursi. Visto che il genocidio dei bosniaci musulmani è andato a buon fine, come ha riconosciuto la stessa Onu qualche mese fa, oggi Zvornik è una cittadina a maggioranza serba appartenente alla Repubblica serba di Bosnia ed Erzegovina. Il suo cimitero ortodosso si inerpica sul pendio che sovrasta il paese e guarda verso il fiume Drina, che segna il confine tra la Bosnia e la Serbia. Il motivo che rende il cimitero ortodosso di Zvornik diverso dalle altre decine di cimiteri ortodossi che abbiamo incrociato è che ai suoi margini, invase dalle felci e dalle acacie, sono nascoste le tombe dei corpi senza nome di una dozzina di persone migranti rigurgitate negli ultimi anni dalle acque della Drina. Come la rotta mediterranea, anche la rotta balcanica miete morti, ancorché pochi, per i quali da qualche tempo due attivisti bosniaci chiedono alle autorità locali una sepoltura individuale e localizzabile che, per ragioni di prossimità geografica, avviene proprio nel cimitero ortodosso di Zvornik. Quando ho studiato la scelta di Antigone a scuola, mi veniva chiesto di concentrarmi sul contrasto tragico tra la legge umana e quella divina e sulla supremazia etica della seconda; di poca attenzione era degnato però il contenuto di quella stessa legge divina e cioè che è fatto obbligo di seppellire i morti. Nihad e Senad, i due bosniaci che hanno capito Sofocle, girano per obitori e per municipi, e chiedono che i corpi delle persone morte lungo la rotta balcanica abbiano, come Polinice, degna sepoltura.
La regione della Serbia e del Montenegro che abbiamo attraversato prende il nome di Sangiaccato: si tratta di un’antica unità amministrativa – il Sangiaccato di Novi Pazar – dell’Impero ottomano, originariamente appartenente alla provincia di Bosnia e poi a quella del Kosovo, prima di essere divisa tra Serbia e Montenegro dopo la Prima guerra balcanica nel 1912. Questa storia amministrativa fa sì che la zona è tuttora abitata da persone sia ortodosse sia musulmane: i necrologi, qui affissi ai pali della luce e alle fermate degli autobus urbani ed extraurbani, si distinguono tra loro per il colore della cornice, nera per gli ortodossi e verde per i musulmani, e per l’alfabeto con cui si scrive la stessa lingua, cirillico per i primi e latino per i secondi. Questo da lontano. Avvicinandosi, si capisce a che religione appartengono i defunti e le defunte anche leggendo i loro nomi: per quanto la si possa slavizzare con i suffissi dei patronimici – Osmanovic, Ahmetašević, Izetbegović – la matrice araba dei nomi dei musulmani rimane evidente. È stato leggendo un annuncio mortuario con cornice verde nel Sangiaccato che ho capito che Zlatan Ibrahimović è nato in una famiglia musulmana.
Nella regione del Sangiaccato, essendoci molti musulmani, ci sono di conseguenza molti cimiteri islamici. Quantomeno nei Balcani, i musulmani seppelliscono i loro morti nei prati, segnalando con due steli la posizione della testa e dei piedi della persona defunta. In genere, soprattutto in Bosnia, la stele in marmo bianco in posizione della testa termina con un turbante stilizzato nel caso di un uomo e con una forma trapezoidale, che ricorda il velo e che deve essere più bassa del turbante, nel caso di una donna; altre volte, il culmine della stele riproduce il profilo della cupola verde della moschea di Medina. Secondo i dettami dell’Islam, i defunti devono essere posizionati nelle bare appoggiati sul fianco destro e le salme devono essere inumate con il viso rivolto in direzione della Mecca, ovunque si trovi il cimitero, per esempio in Bosnia, in Serbia o nel più antico cimitero islamico in Italia, a Trieste. Se in Bosnia le tombe musulmane si assomigliano tutte e tutte assomigliano a quelle del cimitero di guerra di Alifakovac a Sarajevo, nella zona del Sangiaccato si può notare invece un certo sincretismo con la tradizione ortodossa: capita infatti di vedere tombe musulmane in granito scuro con le fotografie dei defunti incise a laser sulla pietra.
Questa influenza interreligiosa, così visibile all’occhio lento di chi percorre i luoghi in bicicletta, in realtà è un fatto antichissimo. Uno dei monumenti Unesco dei Balcani è infatti quello degli stećci, pietre tombali monolitiche medievali, realizzate per la maggior parte prima della conquista della regione da parte degli Ottomani e oggi presenti sul territorio di quattro Stati: Bosnia, Serbia, Croazia e Montenegro. Questi stećci, che noi abbiamo incrociato vicino a Prijepolje in Serbia, stanno conficcati nella terra dei Balcani a decine di migliaia da sei, sette secoli, a protezione dei corpi di persone appartenenti alle tre confessioni cristiane dei Balcani del tempo (ortodossa, cattolica e della Chiesa di Bosnia). Forse è stato questo stesso patrimonio funerario antichissimo e disseminato dentro il quale ci siamo trovati a viaggiare che ha reso possibile l’esprimersi in forma scritta di una fascinazione per le architetture funebri, i rituali della morte e i cimiteri che mi accompagna da tanti anni. Ho sempre provato un interesse specifico per i mourning rituals, per come cambiano da un luogo all’altro. Trovo – e questo l’ho già detto alle persone con le quali ho qualche confidenza – che uno dei portati più pericolosi della nostra società disgregata sia la progressiva deritualizzazione, che intacca addirittura quel territorio della vita che sconfina nella non vita che è il funerale. A me pare che esiste un’urgenza, nella società occidentale laica, che è quella di pensare un rito funebre civile, che valga anche per quei poveri cristi che non possiedono una comunità di appartenenza già dotata dei propri simboli. Se avessi modo di fare un altro dottorato, farei una ricerca antropologica sulla deritualizzazione della morte nella società occidentale.
La Jugoslavia è stata un accidente storico durato quarant’anni che ha molto amato i rituali. Gli spomenici sono i monumenti che ricordano i morti partigiani e le battaglie della guerra di Liberazione; sono spesso manufatti brutalisti di una bellezza quasi futuristica e si trovano a migliaia, in ogni paesino, dalla Macedonia al Carso. Un’analisi di quei luoghi, dei monumenti ai caduti, delle appropriazioni nazionalistiche, richiederebbe un altro long-form, ma c’è un’eredità jugoslava che si può dire anche qui: che non tutte le tombe nei Balcani sono vergate con una croce o una mezzaluna, ci sono anche quelle con una stella rossa partigiana, a testimonianza di una possibilità rituale non confessionale.
Verso metà luglio, entrando in Kosovo dal Montenegro, siamo stati per la prima volta in un monastero ortodosso: ironicamente, riusciamo ad apprezzare una religione solo quando rappresenta una minoranza all’interno di uno stato-nazione. Abbiamo per questo evitato, nella parte serba del Sangiaccato, di visitare il Manastir Mileševa che racchiude il celebre ciclo di affreschi dell’angelo bianco, risalente al XII secolo. Pare, secondo un serbo di nome Albino che frequenta il Centro diurno di Trieste, che il pilota della Nato chiamato a bombardare il monastero della Mileševa durante la guerra in Kosovo fosse un greco ortodosso che scelse di risparmiare un luogo così sacro all’ortodossia e pare anche che, sempre stando ad Albino, questo atto di clemenza sia fruttato al pilota greco la nascita del primogenito a lungo atteso.
Il monastero dove siamo stati noi, tuttavia, non è lo stesso dove si reca annualmente l’ex pilota Nato in pensione a rendere omaggio per grazia ricevuta, ma il monastero di Pejë, che sulla cartina della Jugoslavia che teniamo appesa in cucina porta il nome serbo di Peć. Il monastero, iscritto nella lista dei beni Unesco dal 2004 e ancora localizzato in Serbia sul sito ufficiale dell’agenzia, è in realtà un monastero ortodosso albanese, secondo quanto ci dice un uomo che incontriamo per le strade di Gjakova qualche sera dopo: esiste una tradizione ortodossa albanese, ci spiega, che è quella a cui appartengono gli arbëreshë italiani, oltre che una cattolica, che è quella a cui appartengono lui e la dedicataria dell’aeroporto di Tirana, madre Teresa di Calcutta. In realtà, scoprirò in seguito, gli arbëreshë italiani, come molti abitanti del Kosovo e dell’Albania, sono cattolici di rito bizantino, facilmente confondibili con degli ortodossi, o di rito romano. Il colore delle cornici dei loro necrologi è, se abbiamo capito bene, rosso.
Al di là di quello che dice l’uomo albanese che abbiamo incontrato a Gjakova, il monastero di Pejë/Peć è un monastero serbo-ortodosso, abitato da una ventina di suore, protette da un muro di cinta secolare e, dal 2013, da un controllo di polizia kosovara. Il complesso monumentale è costituito da una concatenazione di chiese, che mi ricorda Santo Stefano a Bologna: la suora che sta all’ingresso fornisce ai visitatori dei parei per coprirsi le gambe. All’esterno, sotto dei pini macedoni, riposano i corpi mortali delle monache del monastero, che prolungano nella morte quella condizione eccezionale che era stata data loro in vita e che mi pare, tra tutte, la più beata: quella della comunione separatista femminile. Proviamo a decifrare i loro nomi sulle lapidi scritte in cirillico: Ekaterina, Anastasija, Jelena. Penso alla loro compagnia, qui sotto la terra, come nelle incombenze quotidiane del monastero: bagnare i fiori, preparare la cena, stirare i parei. Un bisbigliare che continua, tra vecchie donne di generazioni diverse, morte nella pace prebellica o in quella postbellica e sepolte sotto la pace claustrale di questi pini.
Nella parte pianeggiante della provincia di Pejë, raggiunta scendendo lungo il canyon della Rugova, l’architettura rurale è diversa da quella che abbiamo imparato a conoscere nelle campagne della ex Jugoslavia. L’unità abitativa tipica è costituita da un casale circondato da un muro di cinta alto fino a tre metri, che delimita un’ampia aia sulla quale si affacciano alcuni edifici; tirando a indovinare: la casa padronale, il fienile, le stalle. A fungere da varco tra un fuori pubblico e un dentro domestico, ci sta generalmente un grande portone in legno borchiato. Oggi, l’elemento architettonico del muro di cinta, con relativo portone, viene reimpiegato a protezione delle villette costruite con le rimesse degli emigrati di ritorno, ma soprattutto – ed è di questo che sto provando a parlare – si può notare nei cimiteri. I cimiteri, in Kosovo, siano essi musulmani o cristiani, sono circondati da alti steccati e cancelli, spesso con in cima del filo spinato. È forse l’analogia con l’architettura rurale dei muri di cinta, cioè la percezione di stare in una terra dove ognuno è chiamato a delimitare ciò che gli appartiene, che mi fa escludere che lo scopo di questi recinti cimiteriali sia quello di circoscrivere un luogo sacro, segnalandone l’invalicabilità quantomeno agli animali selvatici, quanto piuttosto quello di ribadire la proprietà privata, esercitata anche nella morte.
Nel paese dove è morto mio nonno, a differenza di quello dove sono nata io, quando si muore non si compra la terra dove si verrà sepolti. Nel paese dove sono nata io, invece, si tende a comprare la terra, per trent’anni, perché farsi seppellire in terra comune è un fatto che non è dignitoso. Il paese dove sono nata io e quello dove è morto mio nonno distano tra loro una quarantina di chilometri, tra la tomba di mio nonno e il Kosovo ce ne sono circa milletrecento: a naso, direi che anche in Kosovo si compra la terra dove si viene sepolti. Quanto a me, mi scoccerebbe l’idea di pagare la fossa per la mia bara, ma forse mi scoccerebbe di più che il mio cadavere venisse disturbato nella requie eterna.
Sarebbe superficiale, in una terra costellata di memoriali, pensare che per ricordare i morti ci si debba limitare alle visite ai cimiteri. Le strade, per esempio, sono cimiteri a bassa intensità. Sulle montagne bosniache, ma anche su quelle turche e forse di altri Paesi a maggioranza musulmana che non ho mai visitato, in memoriam di chi non c’è più si costruiscono fontane. Ma soprattutto a bordo strada ci sono numerosissimi cippi che portano il nome di persone morte in incidenti automobilistici. Che nei Balcani meridionali la gente guidi male lo si capisce attraversandoli in bicicletta, come io e Giulio abbiamo fatto più volte negli ultimi anni. La più grande paura di morire (di una morte non autoinflitta) l’ho provata nel luglio 2021 lungo la direttrice che costeggia la Neretva, da Jablanica a Mostar, in Erzegovina. Ma queste lapidi lungo la strada rappresentano un’altra testimonianza di un costume di guida pericolosa su strade poco trafficate di regioni ad alto tasso di spopolamento. Alle vittime ortodosse, in particolare greco-ortodosse, viene generalmente dedicata una cappelletta votiva alta circa mezzo metro, che riproduce in miniatura una chiesa in mattoni a pianta a croce greca; di queste mini-chiese le strade sono inquietantemente punteggiate. Questa usanza, sebbene legata a un tipo di morte piuttosto recente, conserva un’aura tradizionale e per questo sufficientemente fuori dal tempo.
Al contrario, la variante kosovara musulmana di questi monasteri rinuncia, come nel caso delle fotografie incise sui marmi ortodossi, all’ingiunzione all’eterno prescritta dalla morte, provocando, se possibile, un più profondo brivido del nervo dell’inopportuno. Quando una persona kosovara, statisticamente un uomo nato negli anni Settanta, si schianta guidando e perde la vita, è uso per la famiglia e gli amici costruire sul luogo dell’incidente un monumento funebre che richiami il rapporto del defunto con la sua automobile: un’incisione laser della carrozzeria o, addirittura, una teca di vetro contenente il volante, il medesimo stesso volante tenendo in mano il quale il defunto ha trovato la morte. Qui, mi pare, la morte tocca ciò che le sarebbe per legge intoccabile: la semiosfera del cringe. Come per i polmoni bruciati sui pacchetti di sigarette in vendita nell’Unione europea, si potrebbe pensare che quei volanti sottovetro abbiano funzione di monito e di deterrente, ma la loro natura in realtà non va oltre la celebrazione di una passione (i motori) che si fa strumento di morte. Come due miliardi e mezzo di persone al mondo chinano il capo di fronte a uno strumento di tortura e di morte in uso nell’Impero romano, la croce, così i giovani kosovari piangono i loro amici di fronte a dei volanti in vetrina. Forse in questa attualizzazione della morte, in questa sua dimensione contemporanea che mi suscita l’imbarazzo che sto provando a dire, c’è una familiarità delle persone balcaniche con la morte, una familiarità che io, arrivata a trentadue anni senza aver vissuto un lutto maggiore, non ho l’onore di avere.
Quando, l’undici luglio nel cimitero di Potočari, nel comune di Srebrenica, abbiamo partecipato alla sepoltura delle quattordici vittime del genocidio del 1995 identificate nel corso dell’ultimo anno, mi sono stupita di quanto fossero piccole le bare. È pur vero che, mentre assistevo a quel funerale collettivo, sotto il sole di luglio dei Balcani centrali, insieme ad altre migliaia di persone, molte delle quali avevano camminato con noi nei giorni precedenti nella Marš mira, non sapevo della sepoltura su un fianco prevista dalla legge islamica, che rende conseguentemente più strette le bare musulmane. Tuttavia, la verità è che in quelle cassette verdi non c’erano che ossa, spesso solo alcune ossa del corpo; non c’erano più occhi per guardare la Mecca, e immagino che il protocollo funebre, in casi simili, possa fare un’eccezione.
Oggi è il 18 agosto e la pietra tombale per mio nonno Pio, che è stato sepolto più di un mese fa, non è ancora stata scelta: sembra che comunque, stando alla legge italiana, si debba aspettare un anno prima di coprire la terra, per evitare eventuali piccoli smottamenti. Esistono poi, pare, delle regole precisissime circa l’inumazione e gli arredi funebri, per esempio è fatto obbligo di lasciare una piccola aiuola nella lapide orizzontale, per far defluire la pioggia ed eventualmente per far crescere i fiori. Al di là della casuistica, delle declinazioni particolaristiche nei codici civili, delle tradizioni culturali del lutto, mi pare che, oltre i luoghi e le stagioni, la morte e i rituali funebri non facciano altro che parlare di ciò che è umano, di ciò che è eterno nel nostro essere umani. E della legge, umana o divina, più pregnante di tutte: il diritto ad avere pace, almeno dopo la morte.


Michela Pusterla
Michela Pusterla, nata alla frontiera italo-svizzera, vive su quella italo-slovena. Ha studiato letteratura a Bologna, Berkeley e Parigi. Insegna in un istituto professionale di Trieste.