Versi scelti da “Lame” di Gabriele Frasca ⥀ Fabio Orecchini
Condividiamo con tutti voi lettori di Argo, per gentile concessione dell’autore e della casa editrice, alcuni testi scelti da “Lame” di Gabriele Frasca, recentemente pubblicato da L’Orma nella collana “fuoriformato“, lavoro che comprende i lavori precedenti dell’autore “Rame” e “Lime” e alcuni inediti da “Quarantena” e “Versi rispersi”.
Fumetto (da Lime)
giunto al frigo l’aprì, non c’era molto,
solo l’austerità delle lamiere
d’alluminio, riempì d’acqua un bicchiere,
restò a guardarlo, ed insipido il volto
galleggiò un po’, poi si mise in ascolto,
niente, ovviamente, poteva sedere
ora, tranquillo, frugarsi, vedere
dentro, più dentro, ecco, non c’era molto
Più di questo (da Rame)
Magari proprio al fuoco che li affina, come a disperdersi fra gli altri passeggeri, affioranti al trotto nella lucida mattina dal consueto ritardo della metro, in verità un passaggio ferroviario, cui ogni giorno era obbligo cedere il precedere ai treni che giungevano remoti, fulminando fotogrammi di compartimenti per riversarsi poi nell’eco ribattuta delle gallerie, quasi dovessero lasciare ai corpi, infissi sulle banchine come nel sale, soltanto il vento torbido dei sotterranei, vento fra i panni e nei capelli, vento nel cuore, eccovi affluire quali fiammelle infine scorrendo sulle scale quelli appena smontati dalla corsa delle sette, dopo il balzo opportuno allo sbuffo delle porte dischiuse nel vetro liquido dei neon, col puzzo appiccicato di plastiche scaldate da culi e culi e l’umido cimiteriale delle rotaie, e lì dunque fra i primi a ricozzare magari sgomitando nei bivi dei sottopassi, eccovi anche Ginetto giovanotto dei sobborghi, Ginetto detto il Rapido per sua inconfondibile premura, e fulminea esecuzione, o come tale cantato dalla corale canzonatura dei perdigiorno del quartiere, e férmati Ginè non posso faccio tardi, inteso al momento, perdurando a suo modo nel risveglio, a digrignarsi nei denti la molesta memoria, diciamo un ricordo in acido di cena veloce e scarso dentifricio, per non parlare degli ancora saporosi brioscia e caffellatte, con la lingua a tentoni a compitare nei molari ogni minuto memento di come ci riscavano le carie, e poi, corsi a due a due gli ultimi gradini, eccovelo qui che suda in superficie, tamponandosi la fronte col fazzoletto, nell’improvvisa malgrado l’ora fornace estiva, massimi i valori stagionali, con tanto di scirocco e tutto il resto, consegnandosi al mondo col bacino a suo modo proteso, quasi fosse trascinato in alto dalla pompa che c’innesta, eh già, destata e tumefatta in maniera un pelo dolorosa non da natiche furtive strusciate d’improvviso, se mai fra un corpo e l’altro del vagone, non dalla rottura delle chiuse del pensiero, non da un sogno un ricordo un desiderio, solo dal sussultorio massaggio allo scroto, regalo consueto, profuso, e certo inopinato, ma regalo d’amore, delle meccaniche terrestri.
Poi di corsa all’officina, elettrauto e autoradio, cazzo con venti minuti di ritardo, capo lo giuro la metro, sì sì sempre la metro, ogni giorno la stessa storia, porco questo e quest’altro, sacramentava quello, cioè circa un quintale di principale, che poi di suo incazzato lo era appena sveglio, ogni giorno la stessa metro, strillava tenorile ma nasale, non è così Gigetto, ché gli storpiava a posta il nome, la stessa metro e lui mai puntuale, mai e poi mai, ma quella sì sarebbe stata l’ultima, che non ci avrebbe messo nulla a rimandarlo a casa a calci in culo, a ricacciarlo nella merda eccetera, e dopo l’attesa lavata di capo, neanche il tempo di rintuzzare e giù fra i fili elettrici, i motori per improvvisa bizza indispettiti, le batterie da ricaricare, il solito valzer delle candele, gli stereo da provare genuflessi per gl’innesti a tutto volume, potrebbe farlo scusi con questo, fare cosa e questo che, e poi d’un sùbito scivolare al tu, mettigli dentro questo per favore, col cliente a sbirciarlo dagli occhiali scuri, capelli rasi, basette praticamente inesistenti, ciuffo spiovente, saranno stati quasi coetanei, lui il Rapido dentro la vettura sdraiato a sposare maschi e femmine, l’altro dalla cintola in giù a mano protesa, questo nastro, che cosa, aha la cassetta, sì questa, desiderando provarne la resa con la musica da lui preferita, ovvio no, essendo quella stessa, con l’essere la sua passione, a indurlo a una simile spesa, eh già che prezzi, magari uno sconto, ma c’era da parlarne al principale, e così e colà, lungo l’esile filo di consimili preamboli generali fino allo zampillare d’un tratto ininterrotto di chiacchiere, a partire dai ritmi di lavoro, dio solo sa se duri, e al diporto che ne consegue, che uno poi si sa dopo lo sgobbo avrà pure il diritto di spassarsi, da cui dunque il piacere della musica, e perché no del ballo, si fanno quattro salti, si perde un po’ di tempo, e ciarla qui e ciarla là, mentre dagli altoparlanti coi fili ancora appesi, non appena inserita la cassetta, una voce un po’ impastata protestava che oltre quello non c’era proprio nulla, oltre quello, nulla, ecco chiedergli l’altro a che ora poi finisse, a che ora se mai vedersi, che si fa un giro via si va a ballare, e oltre quello nulla, e meritarsi in risposta uno sguardo da sottinsù, come a saggiarne un po’ la consistenza, benedetti all’uopo i pantaloni stretti, per risalire poi, e perché no, dal costo delle vesti alla capacità d’acquisto, per giungere così, a occhiata finita su un sorriso, al tempo e al luogo dell’appuntamento, perché il Rapido non disdegnava gli extra, con quello che costa la vita, sì, la sera estiva sarebbe stata lunga, sì, fra le macchie luccicanti dei distributori di benzina, perché oltre quello nulla, nulla, diciamo alle otto meno dieci, il tempo di una lavata, nettarsi il grasso, l’appiccicoso dalle mani, e poi via, via, ché più di quello, no, non c’era nulla, più di quello glielo dicesse lui cos’altro c’era.
Beatles, Un giorno fra tanti (da Versi rispersi)
gente quest’oggi che notizie ho letto
su uno di quei tizi di livello
sociale giusto e reddito perfetto
e malgrado non fosse certo bello
quello che si diceva di ‘sto tizio
guardando la sua foto da pischello
non so perché ma ci ho provato sfizio
giacché quell’omettino tutto a modo
senza il tempo di dire aiuto o sizio
aveva sciolto in breve il proprio nodo
per non aver capito ch’era rosso
rosso il segnale e rosso come il brodo
che gli s’impiastricciò talmente addosso
da rendergli l’aspetto così tristo
che chi guardava ne restava scosso
gente quest’oggi che filmaccio ho visto
i nostri che vincevano la guerra
eroici e umanitari insomma un misto
di balle sul diritto e sulla terra
e gente giustamente macellata
a fare per la pace i semi in serra
e per quanto pensassi che cazzata
non so perché ma vi trovavo parti
di quanto ho letto fino a questa data
come sarebbe bello risvegliarti
sveglia son sveglio e salto su di scatto
avanzo come avanzano gli scarti
di questo corpo ottuso e poi mi gratto
la testa che s’arruffa nei suoi cardi
vado giù scivolando bello sfatto
bevo un caffè e già s’è fatto tardi
allora mi sotterro nel cappotto
e senza che nessuno poi mi guardi
arrivo alla fermata del diciotto
vado su scivolando bello tosto
qualcuno parla e sono già le otto
mi tiro un po’ di fumo di nascosto
poi crollo quando meno me l’aspetto
nei sogni di chi sogna ad ogni costo
gente quest’oggi che notizie ho letto
di una terra marcita e fatta cava
di fosse in fosse dove a gran dispetto
cerca ciascuno quanto più si scava
d’infiggersi nel suolo fino agli arti
per inaffiarsi con la propria bava
come sarebbe bello risvegliarti
Quarti (da Lime)
Ipse autem salvus erit, sic tamen quasi per ignem.
Paolo
scivolò gli parve bello
rialzarsi senza aiuto
anima quant’hai vissuto
all’ingresso del macello
sotto la vetrina inerte
parve morto ma dormiva
prima o poi tutti s’arriva
a passetti a gambe aperte
gli arredavano la testa
voci ch’ebbero un aspetto
un mercato nel deserto
senza mai tu va’ tu resta
si nascose in un androne
per fuggire quel concerto
basta solo avere un tetto
ad un morto senza nome
cosa fa lei qua gli disse
biascicò cammello e cruna
buon inizio per qualcuna
delle solite sue risse
bevve il sangue sputò un dente
quando fu buttato fuori
ma gli dissero gli umori
non te ne facevi niente
dentro l’immondizia ancora
non il cibo ma i reperti
ricercava d’altri affetti
per rifarsi la memoria
poi la notte quella notte
rannicchiato in un anfratto
esplorò le membra al tatto
per lasciarle ancora assolte
ridacchiò lo cacciò fuori
come se l’avesse espulso
lo guardò ma il primo impulso
fu di piangere gli amori
non appena chiusi gli occhi
alle voci ancora volti
mamma babbo ed altri insorti
a tentare intrusi sbocchi
mamma mamma ogni mattina
con il sole fra le imposte
sognò ancora le risposte
di quel cuore senza rima
poi fu un colpo di bastone
a ridargli la coscienza
sì lo so la mia presenza
desta disse indignazione
erano mezza dozzina
lo picchiavano ridendo
visto che divertimento
abbozzò una risatina
quant’urlò fin quando roco
sotto il fiotto di benzina
vide appena la mattina
poi qualcuno diede fuoco
Perché non si dischiuda il giorno più banale (da Quarantena)
Perché non si concluda il giorno, e più banale
di quanto sia invero temuto,
spanda incurante sul suolo comune il sale
che varrà invalicabile confine,
così che niente mai lo varchi se non muto
e già assuefatto a quello stesso male
che scorge fra tante rovine
non le antiche strutture, ma l’erba soltanto
che circonda l’impronta che allude all’espianto;
perché non si dichiari, appena conteggiato
coi troppi finanche scontati,
l’unico innumerabile finito a lato
della catena che strinsero invece
complici gli altri per poi disporsi per strati,
e il solo a rimanere senza fiato
fra quelli che corsero, in specie
fra quanti avrebbero volentieri un arresto
patteggiato col flusso che è loro richiesto;
perché poi non finisca con l’essere quello
che inverte conteso dal senso
anche il corso del tempo cui giunse suggello,
al punto da rivivere a ritroso
coi giorni eletti quelli a caso da un assenso
inatteso salvati grazie al bello
e stupido stile, ch’eroso
il grosso ritenuto in eccesso, ogni volta,
mentre quasi li annienta, li chiama a raccolta;
perché di un tale evento non rimanga nota
che l’ultima scelta dovuta,
l’inattesa richiesta che tutto si scuota
per esempio dal conto che tenne
coesa troppo a lungo la scena che muta
all’improvviso e proprio ora si svuota;
ebbene per quanto convenne
che fossi e ancora sarebbe dato che resti,
non potrò che fornirmi di nuovi pretesti.
Lo so, lo so che se appena ci penso sbaglio,
e non ne trovo nessuno in grado d’armarmi
la nuova navicella senza ingegno
che d’ora in poi dovrebbe accompagnarmi,
al posto dell’altra che incaglio,
perché raggiunga senza danni il segno.
Ma ci pensate? È per offrirsi a un nuovo taglio
che si elude la lama, e ci rimane un pegno
comunque da pagare, un debito animale,
un corpo cui impedire il suo disegno
perché non si dischiuda il giorno più banale.
“Lame” di Gabriele Frasca .
L’Orma, collana fuoriformato, 2016.
Dal sito della casa editrice.
Fabio Orecchini
Fabio Orecchini (Roma, 1981) è poeta, antropologo, artista. Ha pubblicato Dismissione (Luca Sossella Editore, libro+cd, Roma, 2014), Per Os (Sigismundus editrice, Ascoli Piceno, 2017) e Figura (Oèdipus, Salerno, 2019). Suoi testi sono apparsi su numerose riviste tra cui Alfabeta2, Versodove, L’Ulisse e Nuovi Argomenti ed è presente nel documentario GenerazioneY – Poesia italiana ultima prodotto da Rai5. Ha eseguito installazioni site-specific in spazi quali l'Ex G.I.L di Campobasso, il Palazzetto dei Nobili de L’Aquila, la Mole Vanvitelliana di Ancona, e, a Roma, presso la Biblioteca Nazionale, l’Accademia d’Ungheria, il Teatro Argentina e la Fondazione Primoli. Con l'installazione TerraeMotus si è aggiudicato il Premio "Elio Pagliarani" 2018. Con alcune opere inedite si è aggiudicato il Premio "Poesia di Strada" (XVII ed.) e il Premio "Città di Gallipoli". Collabora con la rivista Argo e la casa editrice Argolibri, per la quale dirige la collana "Talee"; ha inoltre curato la prima edizione italiana di After Lorca di Jack Spicer (Gwynplaine/Argo,2018) e il volume L'altra voce (Giometti & Antonello, 2019), epistolario della poetessa argentina A.Pizarnik.