A voi starebbe bene? I diritti degli uomini di Annie Denton Cridge ⥀ La Punta della Lingua 2024
Il 27 giugno ad Ancona, nel contesto del festival La Punta della Lingua, Sara Lorenzetti e Stella Sacchini presenteranno il libro A voi starebbe bene? I diritti degli uomini di Annie Denton Cridge (Argolibri, 2024), un’utopia femminista risalente al 1870. Pubblichiamo di seguito il primo capitolo del libro, il Sogno numero uno. Il programma completo del festival può essere letto qui
Sogno numero uno
La notte scorsa ho fatto un sogno che potrebbe avere un significato. Ero in cima a una collina che dominava una grande città. Le guglie delle numerose chiese svettavano fiere, in lontananza; e la città era circondata da dolci declivi collinari che si estendevano a perdita d’occhio; mentre un ampio fiume si snodava tortuoso, allungando il suo braccio gentile verso la città. Mi stavo giusto chiedendo che città potesse mai essere, quale fosse il suo nome e il carattere dei suoi abitanti, quando d’un tratto mi ritrovai fra le sue vie. Passavo di casa in casa, di cucina in cucina e… meraviglia delle meraviglie: l’uomo e la donna si erano scambiati i ruoli già, perché in ogni casa trovavo gli uomini in grembiule che sovrintendevano agli affari della cucina. Ovunque andassi, erano sempre gli uomini, e solo gli uomini, a lavorare come servetti e governanti. Quei signori-governanti erano pallidissimi, e sembravano un po’ nervosi; e, sbirciando nei loro cuori (sì, nel sogno potevo farlo), vidi ansia e inquietudine, come se, per tutto il tempo, su di loro incombesse qualcosa di sgradevole, di minaccioso – il risultato di una lunga e logorante battaglia contro le faccende domestiche.
Mentre osservavo quei signori-servetti e quei gentiluomini-governanti mi sono detta: «È assurdo! Ma insomma, dove è finita la loro virilità? Che spalle ricurve! E la voce – così flebile e lamentosa».
In seguito ebbi modo di verificare che a essere di dominio esclusivo degli uomini non era solo la cucina, ma anche la stanza dei bambini: in definitiva, tutti i lavori domestici erano diretti e svolti dagli uomini. Provavo una gran pena per quegli uomini, mentre passavo di casa in casa, di cucina in cucina, da una stanza dei bambini all’altra.
Li vidi nelle case dei poveri, dove “l’uomo faceva il suo dovere”. Vedevo l’uomo di casa alzarsi all’alba, accendere il fuoco e mettersi a preparare la colazione, con il volto pallido e affranto. «Sfido io!» pensai, nel vedere come si affaccendava a destra e a manca, nel cuore la paura costante che il bambino si svegliasse da un momento all’altro. Di lì a poco, infatti, il bimbo cominciò a strillare; e il povero padre corse via per poi tornare, dopo qualche istante, con il pargolo in braccio e in braccio continuò a tenerlo mentre attizzava il fuoco, friggeva la carne e preparava la tavola per la colazione. Quando tutto fu pronto, scesero due o tre bambini con il viso sporco e i capelli in disordine, che andavano accuditi: e, quando ebbe pensato anche per loro, notai che il povero signore aveva perso l’appetito; pallido e nervoso, si mise a sedere sulla sedia a dondolo, con il neonato in braccio. Ma quel che più mi lasciò interdetta fu vedere l’imperturbabile tranquillità con cui la padrona di casa sorseggiava il suo caffè e leggeva il giornale del mattino, all’apparenza ignara delle tribolazioni del povero marito, assediato da ogni parte dalle faccende domestiche.
Era il giorno del bucato e lo seguii passo passo per tutta la lunga e faticosa giornata. Si diresse prima al lavatoio, mentre il piccolo dormiva; poi fece il bucato mentre con un piede dondolava la culla; poi si dedicò alla cena e intanto correva per casa e si affannava a destra e a manca: e in tutto questo la sua povera mente sconvolta continuava a pensare ai lavori di rammendo, rimasti in sospeso, che non aspettavano altro che le sue mani sapienti. Giunse la sera e la donna di casa tornò per la cena. I bambini le andarono incontro per accoglierla; e mentre lei ne prendeva in braccio prima uno, e poi un altro, e a ognuno dava un bel bacio, pensai: «Che meraviglia di donna!». Poi nel sogno passai in rassegna ogni donna di quella strana città ed erano tutte d’una bellezza straordinaria! Mai sguardo colse una bellezza simile, né cuore dell’uomo riuscì mai a concepire: di fronte a quella bellezza quasi angelica, che coniugava in maniera così armoniosa grazia, intelligenza e salute – tout ensemble –, non potevo che provare un profondo stupore e un’intensa delizia.
Quando mi girai, ero tornata nella casa che avevo lasciato. Era sera: la lampada sul tavolo illuminava il povero marito di cui parlavo prima, seduto sulla sua sedia a dondolo a rammendare calze e a rattoppare i vestiti dei bambini dopo la dura giornata di bucato. Vidi che era piovuto; che il filo dei panni si era spezzato e così i panni erano caduti a terra, nel cortile, sporcandosi di nuovo; e pensare che quel poveretto li aveva lavati e risciacquati mille volte, sudando le sette camicie; e alla fine li aveva messi nelle tinozze per il bucato coprendoli con l’acqua che era andato a prendere alla fonte, in una piazza lontana. Benché la giornata di lavoro fosse finita, lui continuava a sfacchinare avanti e indietro, mentre la moglie, in comode pantofole, sedeva accanto al fuoco a leggere.
«Bene», mi dissi, «questa è la casa di gente umile; ma come sarà la situazione laddove possono permettersi la servitù?». Allora, come per magia, il mio desiderio fu esaudito all’istante; mi ritrovai, infatti, in una cucina dove era al lavoro un servetto, con i capelli in disordine, la faccia e le mani sporche e i vestiti laceri e sudici. Il servetto, chino sulla stufa e coltello alla mano, stava preparando la colazione borbottando qualcosa fra sé e sé. Il governante, pallido e infelice, aprì la porta, guardò il servetto senza dire una parola e si diresse subito in sala da pranzo. Non appena quello gli ebbe dato le spalle, il servetto si girò a sua volta, sollevando il braccio che teneva il coltello, e, con uno sguardo diabolico, sussurrò: «Te lo affonderei volentieri nel petto!».
Guardai la colazione sul tavolo e vidi caffè scadente, carne bruciata e biscotti duri come pietre; e sentii la padrona di casa, che sedeva in vestaglia e pantofole tutte lustrini e paillettes, dire al pover’uomo:
«Mio caro, questa colazione è disgustosa, rivoltante: dovresti impegnarti di più».
A quelle parole l’uomo fu preso dalla tristezza: poveretto, che pena mi faceva! Mi sembrava di seguire quel pover’uomo da un giorno intero. La sua salute era molto cagionevole: soffriva di dispepsia. Lo vidi occuparsi dei bambini, lo vidi cucire, lo vidi andare in cucina in preda all’ansia e lì occuparsi – con aria mesta e stanca – delle faccende, mentre il servetto lo seguiva ovunque con il suo sguardo cupo e l’espressione feroce. Vidi gli sprechi e le ruberie del servetto, e vidi il governante di quella casa, pover’uomo, annichilito e frenato dall’aiuto di quell’altro. Mi si spezzava il cuore a vedere quel povero governante sfinito, incapace di svolgere il proprio lavoro e in balia di quel servetto tremendo; e ormai il pallore degli uomini che incontravo non mi meravigliava più.
Visitai le dimore delle famiglie agiate; e, che la servitù fosse numerosa o meno, quasi ovunque trovai governanti stritolati dall’ansia e dalla preoccupazione. Lavare, stirare e accudire i bambini erano problemi all’ordine del giorno, e così gli sprechi e le ruberie; e, oh! quella schiera di uomini infelici e malaticci mi metteva addosso una tristezza indicibile.
E mentre, nel sogno, il mio cuore era colmo di pietosa commiserazione per quei governanti, mi ritrovai in mezzo a una grande assemblea, composta solo e soltanto da questi signori. Quasi tutti gli uomini della città si erano riuniti per esprimere il loro malcontento: la protesta indignata dei governanti. Ognuno indossava un grembiule da cucina bianco, e notai che alcuni avevano le maniche imbiancate di farina, mentre altri erano inzaccherati di impasto; altri ancora avevano strofinacci e asciugamani appesi alle braccia. Molti, in braccio, avevano anche i figli più piccoli, e al fianco un paio dei più grandi.
Poi ascoltai alcuni dei loro discorsi. Un signore disse:
«Ormai saranno sedici anni che lavoro come governante, so cosa significa essere poveri e fare il lavoro che faccio, e so cosa significa gestire la servitù: e vi dico, signori, che il sistema di gestione della casa, per come è inteso ora, è tutto sbagliato. Si tratta, in primis, di un lavoro esagerato e dispendioso; e, in secondo luogo, ci logora nel corpo e nello spirito. Guardate quanto siamo pallidi e sfiancati! Ci vuole un cambiamento!».
«Non siamo noi a confezionare le nostre scarpe», intervenne un altro oratore, «né dobbiamo filare il filo e tessere la stoffa: il telaio a mano appartiene al passato e ormai è stato sostituito dalle macchine, che finora ci sono state di grande aiuto. Ce la passiamo molto meglio dei nostri nonni, che dovevano tessere su un telaio a mano la mussola e le stoffe per tutta la famiglia; ma certo possiamo ambire a qualcosa di più. Siamo costretti a trascorrere ogni giorno della nostra vita chini sulla stufa, sulle tinozze per il bucato o sull’asse da stiro, o a pianificare le attività domestiche. Possibile che non si possa fare nulla per uscire da questa situazione? Possibile che non si possa delegare tutto quanto alle macchine? Non si potrebbe applicare alla casa i principi della vendita all’ingrosso? Io dico di sì: la necessità di una cucina in ogni casa è pari a quella di un fuso o di un telaio».
Seguirono molti altri discorsi sulle storture del sistema in cui si trovavano a vivere, che vedeva impiegate una o due persone, e spesso anche di più, per svolgere il lavoro di una piccola famiglia, quando si sarebbe potuto ottenere lo stesso risultato con una spesa di gran lunga inferiore e con un quarto della manodopera, se a queste e ad altre faccende fosse stato applicato il principio della vendita all’ingrosso.
Un uomo osservò che la cucina è, per ogni casa, come un piccolo negozio al dettaglio; un altro la definì uno stabilimento che produce sporcizia per ogni famiglia e sparge fumi e sudiciume in ogni stanza. Un altro signore disse che i bei dipinti sul tema del focolare domestico, sulle case felici, ecc. non erano altro che miserevoli inganni, e sarebbero rimasti tali fin quando lo stato attuale delle cose non fosse cambiato.
«Protesto contro lo stato attuale delle cose!» disse un uomo alto, dai lineamenti delicati, con un cervello grande e attivo. «Dipende tutto da noi: dobbiamo rimboccarci le maniche, qui e ora. Invece di quaranta fornelli piccoli e costosi, con un servetto ciascuno, e tanti uomini impiegati come governanti, prendiamo un unico grande fornello e cuciniamo, laviamo e stiriamo su vasta scala».
Ebbene, nel sogno ricordo di aver ascoltato centinaia di questi discorsi, proteste e denunce.
Poi la scena cambiò; e subito spuntarono grandi cucine in diverse parti della città, in grado di fornire, come per magia, i pasti della giornata a centinaia di famiglie. Mi guardai intorno e… accipicchia! Era stato raggiunto lo stesso risultato ottenuto con l’introduzione delle macchine nel tessile, che avevano surclassato il telaio a mano. Il genio inventivo dell’epoca si era messo all’opera, sfornando una macchina meravigliosa in grado di cucinare, lavare e stirare per centinaia di persone in contemporanea.
«Voglio proprio vedere come funziona quello stabilimento», dissi fra me e me nel sogno; e subito un signore cortese, che disse di avere lavorato come governante per venticinque anni e di conoscere tutte le seccature, anche le più insignificanti, del vecchio sistema, fu tanto gentile da mostrarmi le diverse operazioni svolte dai macchinari.
«Ora cucineremo la cena», mi spiegò, mentre si dirigeva verso una macchina gigantesca. Toccando una leva, senza il minimo sforzo, fece cadere una tonnellata di patate in una grande cisterna; quindi, le patate furono lavate e poi trasferite in una macchina per la pelatura; da questa operazione, eseguita in un paio di minuti da centinaia di coltelli, le patate uscirono pronte per essere cucinate. Le rape vennero sottoposte allo stesso procedimento, poi furono preparate altre verdure per l’enorme impianto di cottura. A svolgere tutto il lavoro erano i macchinari: senza sollevamenti, senza trasporto, senza confusione; erano le macchine, come oggetti animati, a sollevare, preparare e trasferire quel che serviva all’uomo.
Vidi una “macchina autoalimentata per torte” – si chiamava così – che pareva una macchina da stampa a vapore, di quelle dove il foglio bianco entra da un lato ed esce stampato dalla parte opposta. Allo stesso modo, farina, grassi alimentari e frutta venivano introdotti nello stesso momento in tre recipienti separati, e all’altro capo uscivano torte pronte per la cottura, che venivano subito trasferite in forno da un piccolo tram, azionato da un macchinario. C’era anche un’altra macchina che produceva dolci e torte.
Arrivò l’ora del pasto: doveva essere servita la cena. Si aprirono due grandi porte di legno per mezzo di una molla che il signore toccava con il piede. Quindi ci sfilarono davanti, uno dopo l’altro, piccoli carri a vapore dall’aspetto curioso, che si muovevano in modo quasi impercettibile grazie alle ruote ricoperte di gomma vulcanizzata: quei carri erano fatti per viaggiare su strade comuni e somigliavano alle carovane. Passavano accanto a macchine chiamate “servitori”, dove i pasti venivano messi nei piatti e spostati sulle carovane a vapore, dette “camerieri”. Tutte queste operazioni venivano svolte con silenziosa e metodica rapidità da alcuni addetti alle macchine con cui venivano preparati i pasti e poi distribuiti a centinaia di famiglie. Come ebbi modo di vedere, c’erano centinaia di questi “servitori”, oltre a centinaia di camerieri; e così la cena veniva portata e servita quasi in tempo reale, in casse a doppio strato di latta, contenenti tutto il necessario per la tavola.
Poi partivano i “camerieri” a vapore e, quasi in contemporanea, consegnavano i pasti in tutte le case, che, tra l’altro, in quel periodo erano oggetto di una rapida “rivoluzione degli interni”, al fine di soddisfare le mutate esigenze: ora le sale da pranzo potevano ospitare centinaia di persone, riunite in grandi gruppi o fatte accomodare attorno a una serie di tavoli che formavano un enorme quadrato vuoto al centro; e gli stabilimenti per le cucine e le lavanderie si trovavano nel cuore della casa, o tutt’intorno, a disegnare un cerchio perfetto – l’importante era coniugare, come non si era mai fatto fino ad allora, estetica ed economia domestica.
Ma torniamo ai camerieri a vapore: all’ora stabilita, ritirarono le casse di latta con dentro le stoviglie e i rifiuti, per poi tornare al quartier generale, dove tutte le stoviglie venivano lavate e rimesse a posto grazie alle macchine a vapore.
Il lavaggio e la stiratura – come ebbi modo di scoprire – avvenivano con la stessa rapidità, sempre tramite alcuni macchinari; diverse centinaia di pezzi entravano sporchi da una parte della macchina, e uscivano dalla parte opposta pochi minuti dopo, risciacquati e pronti per l’asciugatura. La stiratura era tanto rapida quanto perfetta: liscia, levigata, senza pieghe, senza macchie; il tutto eseguito da un macchinario.
Poi mi guardai ancora una volta intorno in quella strana città e – meraviglia delle meraviglie – vidi una classe emancipata! I visi pallidi e malaticci degli uomini stavano lasciando il posto a un colorito sano e radioso. L’ansia, che un tempo segnava i loro volti, stava scomparendo. Niente più servetti da cui guardarsi le spalle, niente più giorno del bucato, niente più musi lunghi o bambini trascurati, perché ora i poveri governanti avevano il tempo di occuparsi dei figli e di coltivare il proprio intelletto; e vidi che il sogno del poeta e del veggente si era realizzato: marito e moglie sedevano fianco a fianco, ciascuno condividendo le gioie dell’altra. La scienza e la filosofia, la casa e i figli, erano cementati insieme – la pace, la dolce pace, era scesa come una colomba su ogni famiglia.
Mi ridestai: era tutto un sogno. Accanto al letto c’era mio marito, in piedi. «Annie, Annie!» mi diceva, «svegliati, Annie! La ragazza nuova che hai preso è una buona a nulla. Alzati e vai a occuparti di lei, altrimenti non farò colazione. Sono ormai diversi giorni che arrivo al lavoro in ritardo e temo che succederà ancora».
Mi alzai e, mentre mio marito mangiava, riflettei sullo strano sogno che avevo fatto. Non appena se ne fu andato, lo trascrissi, sentendo che aveva davvero un significato profondo, e che era una sorta di profezia del “buon tempo che verrà”, quando le donne si libereranno di cucina e fornelli, e i progressi dell’epoca realizzeranno per la donna ciò che io ho sognato per l’uomo.
Annie Denton Cridge (1825-1875) fu una scrittrice, femminista e visionaria britannica emigrata negli Stati Uniti, conosciuta per il suo impegno nella lotta per i diritti delle donne e per il suo contributo significativo alla letteratura utopica e di fantascienza. Nata in Inghilterra, Cridge si trasferì negli USA dove divenne attivamente coinvolta nel movimento suffragista, sostenendo con passione l’uguaglianza di genere e i diritti civili. Oltre alla sua scrittura, Cridge fu un’oratrice eloquente. Partecipò a numerose conferenze e incontri pubblici per promuovere le cause femministe e attirare l’attenzione sui diritti delle donne. La sua eredità persiste come fonte di ispirazione per le generazioni successive di attivisti e scrittori impegnati nella lotta per un mondo più equo e inclusivo.