Xenía di Ianus Pravo ⥀ Passaggi

La rubrica sulla prosa breve Passaggi ospita oggi, eccezionalmente di giovedì, Ianus Pravo con il testo Xenía, accompagnato da una fotografia di Davide Gualtieri. L’editoriale della rubrica può essere letto qui

Immagine in copertina di Davide Gualtieri, Ora vengono i fiori che sembrano neve, 2024.

 


I dormienti sono i lavoratori e artefici di tutto ciò che accade in questo mondo.
Eraclito

 

Pensa: se dovessi cantare una canzone sulle anatre, la canteresti bene o la canteresti male? Le labbra spinte una sull’altra reprimendo un sorriso. Pensa: come può fluire questo stato? Come può questo flusso stare? La forma delle cose. Non ha idea di che ora sia, ma sente con esattezza in che Quinquennio del Signore sta acquietando la sua agitazione. La porta della stanza chiusa a chiave, ma egli la spalanca di colpo. Appare nella cornice della porta, un bugno sventrato dalla chirurgia del respiro. Ha una bottiglia in mano, se la porta alla bocca. La fa rotolare sul pavimento. Dall’ultimo altare dei propri occhi muove, fattosi grande del suo nascondersi, in un intervallo di tempo che tange il prima e il dopo dell’evento degli occhi, dal primo altare delle proprie unghie mozzate avanza un segmento di abolizione di sé, ostenta un cuneo di riconferma del prima e del dopo di sé. La stranezza di una dimora. Se qualcuno vive nella casa, la casa non crollerà mai. Vede meno di quanto guarda. Dalla finestra alcune schegge di luce rampicanti sul volto asperso sulle scie delle schegge. Nella semioscurità, nell’avarizia dell’aria, nell’equivalenza di spazio e tempo, nel loro farsi madre e figlio e figlio e madre impediti, vede se stesso abolito – un non è che è, Genicht, sartor resartus, la metastasi tra mezzanotte e mezzogiorno e mezzanotte, yen pox –, vede se stesso giacere su un letto che è uno specchio, ma in un primo tempo non si accorge che è uno specchio, le lenzuola lo coprono. Ascolta il respiro di chi è immerso in un sonno profondo, stipato in un cunicolo percorso da secrezioni di nudo. Se stesso, il proprio xénos, dimenticato come l’ossigeno, è riverso su un fianco, non emerge che il viso, il corpo è nascosto dalle lenzuola. Il viso è bianchissimo. La mano destra fuoriesce dalle lenzuola. La mano è disposta in modo che soltanto il pollice è occulto sotto la guancia, sfiora il volto addormentato, appoggiato sul cuscino, e le dita s’incurvano appena. Egli si stringe una mano con l’altra. Si avvicina al letto, accende un abat-jour avvolto in un velo rosso che proietta una luce spettrale su tutta la stanza. Fruga con lo sguardo qualcosa che sembra anteriore agli dèi, una radura in un bosco elettrico, in ma, un modo che non ha modo, il registro dello svanito al registro, qualcosa che non entri in guerra. La guerra è guardarsi fissamente le mani. La mano visibile di se stesso – annullata – risale al viso. Non è bellezza se non è alla portata di una mano che la infanghi. La mano che torna vuota nella costruzione del suo tatto. Lo sforzo del tatto, linguaggio esposto al farfuglio. L’osservazione scorre sulle labbra dipinte da un rossetto carminio sfatto fino al mento, come una macchia più scura sul volto velato dalla luce rossastra. Egli prova la tentazione di sollevare i capelli a se stesso per scoprirgli l’orecchio, ma, appena allungata, ritrae la mano. Se stesso, quasi reagendo al gesto abortito, volta docilmente il viso, muove la spalla, continua a dormire, supino. Egli solleva la mano sinistra e la porta al volto di se stesso, strappato a se stesso, accosta la punta dell’indice. Le labbra socchiuse lasciano intravedere i denti. Il respiro si fa leggermente più rapido. Egli preme l’indice e il medio sul polso di se stesso, come per accertarne il battito. Se stesso allunga il braccio sul braccio, vi lascia posata la mano, aliena. Le braccia dell’uno e dell’uno sono segnati dagli aghi di siringa. Egli osserva, posati su una sedia, gli indumenti di se stesso. Prende tra le mani il maglione, lo dispiega, lo annusa. Si sveste, toglie la giacca, la camicia, le depone sul pavimento sopra gli indumenti di se stesso scaraventati al suolo. Calpesta gli indumenti come per schiacciare una sigaretta, come per schiacciare un bambino, un suolo butterato di referti. Egli solleva piano il lenzuolo dal corpo di se stesso che appare nuda emorragia distesa su uno specchio, un dono, potlatch, disincagliato da un’arca di risparmio di luce. È posizionato come il Cristo di Carracci. Gli si stende a fianco. Se stesso ha la bocca socchiusa. Egli gli tocca delicatamente un dente: quando ritrae le dita, in esse è rimasta una traccia rossa. Egli con un piede gli cerca le gambe. Se stesso solleva sopra il capo la mano che teneva seminascosta sotto la guancia e per due o tre volte distende lentamente le dita. Gli tocca una mano, poi solleva una spalla e si volta nuovamente sul fianco, protendendo il braccio come per abbracciargli il collo ma il braccio ricade sfiorandogli il petto. Ora il volto dell’uno si offre vicinissimo al volto dell’uno, nel vuoto infinito tra l’uno e l’uno. Egli se ne distanzia un poco, un infinito, gli prende cautamente il volto tra le mani, con le dita gli unisce le labbra separate. Il bello delle labbra è il mondo che le separa. Una corsa nell’opposto. Tolta la mano, la bocca di se stesso torna ad aprirsi, ansima muta inchiodata sulla faccia, infinita, chiodo che non la fissa. Egli osserva il folto dei corpi sul letto specchio, la cruna impervia, con la mano spinta sulla spalla accompagna se stesso a voltarsi fino a giacere sulla schiena offrendo frontalmente la nudità che tracima dalla nudità che diserta dal letto del proprio fiume. Egli scivola piano ai piedi di se stesso, una cassa da morto, le piante dei piedi sono segnate da cicatrici impallidite. Il suo sguardo è inebetito sulla triplicazione del corpo nello specchio – il bianco attutito nel bianco – e sulle unghie riformate dei piedi, smaltate di rosso, sul sesso, sul ventre. Ritorna su ognuno dei punti del corpo per riconsiderarne l’immagine, il bianco dell’inondare, il nero del suo ritrarsi. Si copre gli occhi con le mani, volta la testa, come per proteggersi dal lampo di un morso, dai gesti accumulati, risparmiati, nel gorgo fermo della dimora. Il corpo aderisce adesso in tutto e per tutto alla superficie dello specchio, schiacciando sotto il peso della carne l’immagine riflessa, ripristinando un ordine in erranza – richiudendo un tornante, rinserrandolo in una multipla mandata di tempo, in uno spazio il cui ozio è il fuori interno dell’immagine, da sempre egli è-stato, ma dubita di essere mai nato –. Dio mio fotografato e ri e rifotografato in specchi in vassoi di metallo in plexiglass in 35 in 16 in super 16 in super 8 in 8 in sintetizzatori di video. He thinks and thanks, egli spinge la sua carne contro l’immagine suppurata, la sua carne traduzione e trabeazione dell’immagine, un vento sull’acqua dell’immagine, divaricata fino alla cancellazione, sôma sêma, uno scambio di mondi, contrazione di debito e credito, l’uno è l’altro, dando finale al fine, una monade senza finestre. Se sapesse da dove, se ne andrebbe.

 

 

 


Chi volesse proporre prose brevi e illustrazioni per la rubrica, può inviarle a questo indirizzo email: RubricaPassaggi@argonline.it

Pravo
Davide Gualtieri, Ora vengono i fiori che sembrano neve, 2024.