Accumulation:
Accumulation n.1, Accumulation of Corpses (Prisoners Surrounded by Curtain of Depersonalization), Earth of Accumulation, Accumulation on Cabinet n. 1, Untitled Accumulation, Accumulation, Accumulation of Falling Flowers, Accumulation of Faces n. 2, Accumulation n. 18a, Accumulation of Stamps 63, Accumulation of Spaces, Accumulation n. 15a, Compulsion Furniture (Accumulation).
E poi dots:
Dots and Mirrors, Accumulation (dots), Dots of Abstraction, Dots Obsession, Dot on a leaf (da quello che si vede, ma il titolo è il mio), Dots and Sun, Dentro il fico, perché per me sono fichi e dentro i fichi ci sono i semini tondi, ma la dicitura recita Tamaneghi: “Cipolle”.
Yayoi Kusama è nota per la sua serie di opere con i polka dots, fila di pallini di stesse dimensioni a uguale distanza: pallini su tela, su grosse sculture di fiori e bambini, su qualunque superficie, vetro, pavimenti, soffitti, palloni. Rossi su sfondo bianco, rosa su rosso, neri su bianco, sul giallo, sul fuxia e su altri colori. Pallini infiniti come le serie delle pareti labirintiche ricoperte di specchi in altre sue opere (The Infinity Mirror Room). In letteratura le figure dell’accumulazione e dell’elenco traducono l’ansia di infinito e al tempo stesso il tentativo di controllo sulle cose, la presa del mondo e il desidero di sentirsi partecipi di un tutto. Passando dalla letteratura alle arti visive, i pallini di Yayoi Kusama credo che possano tradurre le stesse ansie montaliane dell’accumulo di oggetti.
Nella serie Love forever (2007), i pallini si associano in linee e creano lunghi steli di grosse corolle di fiori, ma quelle linee sembrano più catene che steli. Nella tela n. 29, in mezzo ai dots e alle lineette (perché altro non sono che lineette), si stagliano profili dal tratto spesso. In altre tele, sempre della stessa serie e nella stessa sala, l’immensità è fatta di occhi, di mani, ancora di contorni di minute figure, tutti immersi in armoniose ondulazioni che partiscono la tela: immersi nella gelatina del mondo – dico io – se si prova a pensare che l’aria racchiuda i corpi come un solido, o se anche si immaginano le esperienze di sé passate, gli incontri, gli amori, le emozioni, la propria vita e quella dei nonni e degli avi, uniti in una forma che coniuga l’essere col tutto. Un mandala. Love forever, appunto.
Ci si può chiedere dove si trovino nella realtà del mondo i pallini e la figura dell’accumulo. Penso dappertutto. Anche le stampe astratte dei gorghi di Muroto sui tessuti tradizionali giapponesi sono assimilabili a quei pallini.
Si dice poi che il modo di riempire un foglio bianco contenga un suo significato. Ricordo che da studentessa ne riempivo con un disegno soltanto un angolino, i miei compagni l’intera estensione del foglio…
Queste grosse tele di Yayoi Kusama.
Riempite con segni microscopici fino a non lasciare spazio – e fiato –,
a me sembrano
tutti fogli bianchi.
Occhi sulle foglie, occhi sui petali, occhi sulla pelle. Un altro motivo di ripetizione. Anche questi fluttuano, abbandonandosi alla reiterazione. Raccontano una storia di perdita del sé e di abbattimento dei confini – quando si parla di pelle s’intende il primo limite del corpo e della psiche – e anche la storia di un ritorno alla casa del mondo e dell’anima, nel desiderio voluttuoso di sparire.
Ma io sono convinta
che nella vita
all’uomo piaccia avere i piedi saldi a terra.
I tentacoli sono un altro pattern. Nelle tele i tentacoli diventano bordature ricamate, fiamme, petali di girasole, banderuole; nelle statue si ergono in alto e sconfinano in falli. Un big bang, ed altri pallini…
Trasformare i patterns e i dots in musica si può fare? Perché no…
Zum tata tā Zum tata tā Zum tata tā …
Come vuole il mito della dea solare Amaterasu, che al suono del tamburo uscì da una caverna e con il suo riso diede vita al mondo, si presume che i primi strumenti imitarono il battere dei piedi e delle mani. Furono le percussioni… In Giappone, dove ancora il legame con la terra è una cellula di miele, la musica è ritmo che scandisce danze e riti sacri: i piccoli tamburi, i kosutzumi, alternandosi a schiocchi vocali accompagnano la melodia del canto nel teatro di Noh; negli sperduti villaggi delle Alpi del nord, nelle case dal tetto acuminato come mani giunte in preghiera, i sasara, una fascia di listelli di legno legati da una corda, sono scossi a intervalli regolari e cadenzano i passi della danza delle donne.
Zum tata tā Zum tata tā Zum tata tā …
Pensare la vita come ritmo: il primo grido smemorato accompagnato dal sorriso di chi ti tiene in braccio, innamorarsi sciogliendo il filo dei possibili, dare luce a nuove vite e rivedersi nei tratti di chi da te non è dissimile, osservare silenziosi il susseguirsi degli inverni nelle forme dell’alito sul vetro, e infine, polvere raccolta ai margini, lasciarsi sollevare da una ventata di tramontana. Nascere, vivere, morire, e di nuovo ancora, come il ritmo incessante di pallini e di minute figurine su un grosso foglio colorato.
Questo ho visto e sentito nei pallini di Yayoi Kusama.
Matsumoto, 19 agosto 2012
Daniela Shalom Vagata